martedì 4 novembre 2014

Vita e non vita.

Brittany Maynard ha anticipato la sinergia metastatica che l'avrebbe finita e ha interrotto la decadenza organica, le allucinazioni cerebrali che il cancro al cervello le provocava. Lo ha fatto facendosi aiutare a morire, quando la speranza, a lei, giovane, bella e potenzialmente piena di vitalità, era inconfutabilmente negata. Non ha trasceso la sua vita in una dimensione che ad una ragazza della sua età non può interessare e può essere, al massimo, collocata in un orizzonte indeterminato, fattosi prossimo con crudele fatalità. La Chiesa "fa salva la persona, ma condanna il gesto, come non dignitoso", allora non salva niente perché una persona senza dignità, una pecorella rassegnata, non è una persona. Brittany è morta, ha accettato con consequenzialità il suo destino, che le ha negato le gioie e, forse, i dolori, che, per altri aspetti, la natura le aveva apprestato ma non ha voluto o potuto consentirle. La giovane donna ha fatto bene, a mio avviso, a darci un taglio; l'eutanasia portata nelle corsie degli ospedali servirebbe invece a far fuori tanti vecchietti inutili e costosi, fastidiosi per i propri parenti e ignorati da tutti. Varrebbe dunque la pena di morire? Sì, certamente, ma non per mano altrui.

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