domenica 9 novembre 2014
Primi bilanci.
Quando il distacco storico, assertivamente "spiegherà" cosa è successo e cosa sottintendeva il '68, il '77 e il 9 Novembre del 1989, noi non ci saremo più e, quei pochi che se ne interesseranno, non avranno elaborato le sensazioni e le passioni che questi avvenimenti coinvolgenti avevano provocato, negli entusiasti e nei più pensosi. Rifletterci, forse è vano, ma ignorarli è come ignorare un pezzo della nostra vita, anzi, la nostra vita a brani, felice mentre si consumavano i cambiamenti, ignara delle basi del mondo che sarebbe venuto.E però l’89 non fu solo gioiosa rivoluzione libertaria. Fu un passaggio assai più ambiguo, gravido di conseguenze, non tutte meravigliose. Oggi è anche più chiaro, e così l’avverto dolorosamente nella memoria che evoca in me. Peraltro quel 9 novembre di 25 anni fa, credo per tanti, non è dissociabile dalle date che seguirono di pochi giorni: il 12 novembre, quando Achille Occhetto, alla Bolognina, disse che il Pci andava sciolto, imponendo così – a tutti i militanti – la vergogna di passare per chi sarebbe stato comunista perché si identificava con l’Unione sovietica e le orribili democrazie popolari che essa aveva creato.
Non c’era bisogno della caduta del muro per convincersi che quello non era più da tempo il modello dell’altro mondo possibile che volevano, molti - non so quanti - degli iscritti al Pci e dei suoi elettori.
Ma non si trattava soltanto della sinistra italiana, il mutamento che segnò l’89 ha avuto portata assai più vasta: è in quell’anno che si può datare la vittoria a livello mondiale di questa globalizzazione che tuttora viviamo, accelerata dalla conquista al dominio assoluto del mercato di quel pezzo di mondo che pur non essendo riuscito a fare il socialismo gli era tuttavia rimasto estraneo.
Ci fu, certo, liberazione da regimi diventati oppressivi, ma solo in piccola parte perché non aveva vinto un largo moto animato da un positivo disegno di cambiamento: c’era stata, piuttosto, la brutale riconquista da parte di un Occidente che proprio in quegli anni, con Reagan, Tatcher, Kohl, aveva avviato una drammatica svolta reazionaria. Al dissolversi del vecchio sistema si fece strada, arrogante e pervasivo, il capitalismo più selvaggio, che sradicò valori e aggregazioni nella società civile e lasciò sul terreno solo ripiegamento individuale, egoismi, corruzione, violenza. Il coraggioso, ma imprudente tentativo, di cui i competitori colsero la debolezza e l'inesperienza ( è stato il primo e l'ultimo Segretario del PCUSS ad esser nato dopo la Rivoluzione d'Ottobre ) di Gorbaciov non riuscì, il suo partito, e la società in cui aveva regnato, erano ormai decotti e rimasero passivi.
E così il paese anziché democratizzarsi divenne preda di un furto storico colossale, ci fu un vero collasso che privò i cittadini dei vantaggi del brutto socialismo che avevano vissuto senza che potessero godere di quelli di cui il capitalismo avrebbe dovuto essere portatore. (A proposito di democrazia: chissà perché nessuno, mai, ricorda che solo tre anni dopo Boris Eltsin, che aveva liquidato Gorbaciov, arrivò a bombardare il suo stesso Parlamento colpevole di non approvare le sue proposte?).
Come scrisse Eric Hobsbawm nel ventesimo anniversario del crollo «il socialismo era fallito, ma il capitalismo si avviava alla bancarotta».
Avrebbe potuto andare diversamente? La storia, si sa, non si fa con i se, ma riflettere sul passato si può e si deve ( e purtroppo non lo si è fatto che in minima parte).
E allora è lecito dire che c’erano altri possibili scenari e che se la storia ha preso un’altra strada non è perché il «destino è cinico e baro», ma perché a quell’appuntamento di Berlino si è giunti quando si era già consumata una storica sconfitta della sinistra a livello mondiale. L’89 è una data che ci ricorda anche questo.
Le responsabilità sono molteplici. Perché se è vero che il campo sovietico non era più riformabile e che una rottura era dunque indispensabile, altro sarebbe stato se i partiti comunisti, in Italia e altrove, avessero avanzato una critica aperta e complessiva di quell’esperienza già vent’anni prima, invece di limitarsi – come avvenne nel ’68 in occasione dell’invasione di Praga – a parlare solo di errori.
In quegli anni era ancora ipotizzabile una uscita da "sinistra" dall’esperienza sovietica, non la capitolazione al vecchio che invece c’è stata. E così nell’89, anziché avviare finalmente una vera riflessione critica, si scelse l’abiura, che avallò l’idea che era il socialismo che proprio non si poteva fare.
Gorbaciov restò così senza interlocutori per portare avanti il tentativo inerme e necessitante di una collaborazione che non ci fu, di dar almeno vita, una volta spezzata la cortina di ferro, a una diversa Europa. Un’ipotesi che aveva perseguito con tenacia, offrendo più volte lui stesso alla Germania la riunificazione in cambio della neutralizzazione e denuclearizzazione del paese. Se quella offerta fosse stata accettata, oggi l'Europa comunitaria sarebbe diversa.
Fu l’Occidente a rifiutare, aprendo la strada allo sfacelo economico e morale del nemico sconfitto, i cui effetti furono proprio quelli di una guerra persa, da lui, l'avversario, favorendo il ripiegamento antidemocratico di Vladimir Putin e facendone di nuovo un nemico, isolato ed estraneo alle dinamiche del continente, di cui il suo territorio occupa una grande parte. Ma, da questo momento in poi, la Russia, pur prevalentemente povera, ha cessato di esportare la sua infelicità per il mondo. L'Occidente mancò all’appello - anche la Chiesa wojtyliana che aveva interagito, in quel contesto di dificoltà, contro ipotesi dialoganti, dopo anni ed anni di ostpolitik - e nella Germania dell'Ovest ripristinò il suo baluardo post-bellico, quando unilateralmente il presidente sovietico diede via libera all’abbattimento della cortina di ferro, restituendo alla Germania un primato neo-guglielmino. Mancò, per frettoloso e tattico realismo, il più grande partito comunista d’occidente, quello italiano, frettolosamente approdato all’atlantismo e impegnato ad accantonare, quasi con irrisione, il tentativo di una terza via utopistica - tertium non datur - fondata su uno scioglimento dei due blocchi avanzata da Berlinguer alla vigilia della sua morte improvvisa.
E mancò la socialdemocrazia, che aveva in quell’ultimo decennio marginalizzato gli uomini che pure si erano con lungimiranza battuti per una diversa opzione: Brandt, Palme, Foot, Kreiski. È così che l’89 ci ha consegnato un’altra sconfitta, quella dell’Europa. Che perse l’occasione di costruirsi finalmente un ruolo e una soggettività autonome, quella “Casa comune europea” che Gorbaciov aveva sostenuto e indicato, e che trovò solo un simpatizzante – ma debolissimo — in Jaques Delors, allora presidente della Commissione europea.
Nell’89 l’Unione Europea avrebbe finalmente potuto coronare l’ambizione di liberarsi dalla sudditanza americana che l’esistenza dell’altro blocco militare aveva facilitato, e invece si ritrasse quasi spaventata. Avviandosi negli anni successivi lungo la disastrosa strada indicata dalla Nato: ricondurre al vassallaggio le ex democrazie popolari per poter estendere i propri confini militari fino a ridosso della Russia, provocando i sanguinosi torbidi e le guerre civili ancora in corso, ricollocando militarmente la Russia, neo-zarista, sul suo storico piedistallo imperiale-territoriale.
Non andò molto meglio neppure in Germania. Anche qui ci fu certo la grande gioia della riunificazione del paese che aveva vissuto la dolorosissima ferita della divisione, ma anche qui, più che di un nuovo inizio, si trattò di una annessione condotta secondo le regole di un brutale vincitore.
A 25 anni di distanza la disuguaglianza fra cittadini tedeschi dell’ovest e dell’est, ai quali era stata donata la convertibilità alla pari del marco, come se le economie fossero uguali ( vi ricorda qualcos'altro? ) è diventata più profonda di quella fra nord e sud d’Italia, perché la «Treuhand» incaricata di privatizzare quanto era pubblico nell’economia della Ddr preferì azzerare le imprese per lasciar il campo libero alla conquista di quelle della Rft, che, privatisticamente, hanno relegato i compatrioti. Cinque anni fa nel commemorare il crollo del muro il settimanale Spiegel rese noti i risultati di un sondaggio: il 57% degli abitanti della ex Germania dell’est – che dio solo sa quanto era brutta – ne avevano nostalgia.
Oggi probabilmente quella che viene chiamata «Ostalgie» è cresciuta, ma nel rutilare della pubblicità che, "sul limitar di Dite" induce all'oblio e ottunde prepotentemente lo spirito critico delle coscienze, è rimossa, non ammessa.
Per tutte queste ragioni non condivido la spensierata, agiografica, festosità che accompagna, anche a sinistra, la celebrazione del crollo del Muro. Soprattutto perché – e questa è forse la cosa più grave – l’89 è anche il tempo in cui per milioni di persone prende fine la speranza – e persino la voglia – di cambiare il mondo, quasi che il socialismo sovietico fosse stato il solo modello praticabile. E via via è finita per passare anche l’idea che tutto il secolo impegnato a costruirlo anche da noi era stata vana perdita di tempo.
Un colpo durissimo inferto alla coscienza e alla memoria collettiva, alla soggettività di donne e uomini che per questo avevano lottato. E nessuno sforzo per riflettere criticamente su cosa era accaduto per trarre forza in vista di un più adeguato nuovo progetto. Non è un caso che anche i posteriori tentativi di dar vita a nuovi partiti di sinistra abbiano prodotto formazioni tanto impasticciate, perché incapaci di fare davvero i conti con la storia e,perciò, abbiano comportato qualche ristagno ideologico o la resa a un pensiero unico che indica il capitalismo come solo orizzonte della storia.
Ci sono e avranno un'evoluzione oggi imprevdibile, nuovi movimenti animati da generazioni nate ben dopo la famosa storia del Muro che si propongono a loro modo di inventarsi un mondo diverso.
Ma non mi rassegno a subire senza reagire il disinteresse, l'ignoranza che avverto in tanti per il nostro passato, di tutti noi che l'abbiamo vissuto e quale che fosse la nostra posizione politica, purché democratica, perché non sono convinto che si possa andar lontano se non si ha rispetto storico per quanto di realmente eroico e coraggioso, e non solo di tragico, c’è stato nei grandi tentativi, pur sconfitti, del ‘900; se non si avverte quanto misera sia l’enfasi posta oggi su un’idea di libertà — quella ufficialmente celebrata in questo venticinquennale del Muro — così meschina da apparire arretrata persino rispetto alla rivoluzione francese dove almeno era stato aggiunto uguaglianza e fraternità, ormai considerati obiettivi puerili e controproducenti: il mercato, infatti, non li può sopportare.
Vorrei che almeno due generazioni uscissero dal mutismo in cui hanno finito per rinchiudersi, intimiditi da rottamatori di destra e di sinistra.
Vorrei che riprendessero la parola, riacquistassero soggettività: per dire che sulla storia di prima del crollo del muro vale la pena di riflettere, perché si tratta di una storia piena di ombre, ma anche di esperienze straordinarie ( a cominciare dalla Rivoluzione d’Ottobre di cui giustamente Berlinguer disse che aveva perso la sua spinta propulsiva, non che era meglio non farla). Buttare tutto nel cestino significa incenerire ogni velleità di cambiamento, di futuro.
Da quando è caduto il muro di Berlino ne sono stati eretti altri mille, materiali (Messico/Usa; Israele/Palestina, Pakistan/India .….ultimo Ucraina/Russia) e non (vedi la disuguaglianza globale e i muri europei «a mare» nel Mediterraneo e di terra a Melilla, contro i migranti). Non proprio una festa.
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