sabato 1 novembre 2014

O ritrovare i propri prodromi o morire e, per noi tutti, democratici a prescindere dalle appartenenze, sarebbe una disfatta.

La Cgil porta in piazza la sua forza assieme a tutte le sue contraddizioni. In questi decenni il principale sindacato italiano, da un lato è stato l'attore sociale della sinistra, perfettamente collaterale alla sinistra cangiante e compromissoria, refluita, per ora, nel Pd, dall'altro ha ripetutamente tentato "un patto dei produttori" con l'impresa, per agire di concerto con essa rispetto al potere politico. Entrambi questi capisaldi della strategia della Cgil ora franano clamorosamente e il suo gruppo dirigente non sa letteralmente che fare, il che non è un buon messaggio da trasmettere ai lavoratori, quando li si mobilita. Certo ci saranno altre mobilitazioni e magari anche uno sciopero generale. Ma senza mai riuscire a chiarire dove si sta andando. Perché la rivoluzione reazionaria di Renzi si combatte non solo rompendo con le sue manifestazioni estreme, ma anche con le ragioni e con il percorso che ad essa ci hanno portato. E questo percorso la CGIL dovrebbe farlo da sola. In passato, in situazioni estreme, ci è riuscita. Il governo Renzi, ma lo potremmo chiamare il governo Renzi/Marchionne almeno per quel che riguarda il lavoro, rappresenta l'ultimo e più astuto tentativo delle classi dirigenti italiane ed europee di imporre da noi le politiche liberiste che hanno distrutto la Grecia. Astuto perché si è capito che la pura brutalità dei diktat della Troika alla lunga non paga. Per questo le politiche liberiste oggi devono essere accompagnate o addirittura precedute da cambiamenti politici e culturali che rendano accettabile o persino condivisibile l'accentuazione delle già così esplosive diseguaglianze sociali. Per fare questo non basta la destra tradizionale, bisogna occupare il campo della sinistra e portare la parte più grande di essa a sostenere politiche più a destra della destra tradizionale. Questo è il renzismo, l'ultima versione di quel trasformismo politico che nella storia del nostro paese é sempre partito dalla mutazione genetica della sinistra. La cancellazione dell'articolo 18 ha il valore simbolico dell'abbattimento dell'ultima bandiera dell'uguaglianza e serve a rendere accettabili provvedimenti ben più immediatamente sostanziosi, come il via libera ai licenziamenti di massa dato alla ThyssenKrupp, o il regalo alla Confindustria della riduzione delle tasse sui profitti pagata con i ticket dei malati. Abbiamo realizzato un sogno, ha detto Squinzi mentre lavoratori e precari vivono nell'incubo. Un governo così sfacciatamente filopadronale non poteva che nascere da una operazione culturale e politica che si accampasse e giustificasse nel Pd. Il governo Renzi riassume trenta anni di politiche liberiste contro il lavoro e le conduce al punto estremo. E proprio per questo rende palese la doppia contraddizione della Cgil. La prima e più evidente è che il rapporto del primo sindacato italiano con il Pd sta diventando sempre più insostenibile, ma allo stesso tempo resta inscindibile, almeno finchè le sue componenti incompatibili riprenderanno il loro cammino autonomo. La Cgil, i suoi gruppi dirigenti hanno sinora avuto il Pd come referente istituzionale fondamentale, rompere con esso, così com'è, significherebbe praticare il mare aperto nelle relazioni politiche che fa paura. Questa contraddizione rischia di essere fotografata dalla presenza al corteo della Cgil di quegli esponenti del Pd critici con Renzi, ma poi disciplinati nel votare la legge sul lavoro. Ma ancora più pesante di quella politica è la contraddizione sindacale vera e propria. La Cgil oggi si oppone al Jobact, ma in questi trenta anni ha sempre finito per accettare tutti i patti e i provvedimenti che hanno portato ad esso. La legge Fornero sulle pensioni e il primo attacco all'articolo 18 del governo Monti son passati tranquillamente. E se ora la Cgil si oppone alla legge delega, non fa certo altrettanto con quei Job act diffusi che vengono definiti in accordi che riducono diritti e salario. Da ultimi l'accordo del 10 gennaio con la Confindustria sulla rappresentanza e alcuni pessimi contratti. Lo scatto d'orgoglio della Cgil di fronte agli sfregi di Renzi è un fatto comunque positivo, ma non sufficiente né a fermare l'offensiva di un governo che le contraddizioni del sindacato ben le conosce ed usa, né tantomeno a invertire la tendenza al degrado delle condizioni di chi lavora. Perché tutto questo cambi è necessaria una rottura di fondo della Cgil con la linea politica e le pratiche sindacali di questi trenta anni. Ma di questo al momento non si vede alcuna traccia.

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