giovedì 20 agosto 2015

L'estraneità più vicina a qualcuno di noi.

Vittorio Casamonica è morto. Meno male, fin troppo tardi; tutt'al più: chi se ne frega. Questo è, normalmente, il clima romano, non solo per gli ultimi saluti, ma per qualsiasi cosa. Almeno da parte del popolo estraneo, di chiunque sia estraneo ad un determinato contesto. E allora chi erano quei popolani in mocassini senza calzini, jeans e magliette con sopra un motto, che portavano la bara, non silenti e compresi, ma sudati, eccitati e vocianti? Anche quando morì Andreotti, sotto casa sua ed in chiesa, la scompostezza la fece alla fine da padrona: grande Giulio! Viva Giulio! E così via. Giulio come Vittorio? Forse sì e forse no, ma certamente entrambi hanno costituito un riferimento pratico e concreto per una folla di clienti, che hanno trasformato la gratitudine per il ricevuto in rimpianto, fedeltà e affiliazione, a prescindere da qualsiasi etica civile. Coatti, molti anche titolati, della Roma da cui sgorgano mille rivoli burocratci apportatori di denaro, con una fortissima vocazione popolaresca e ignorante allo spirito mafioso. Vittorio Casamonica era un Sinti, originario dell'Abruzzo e, come tanti abruzzesi, era andato a fare affari e a cercare impiego o sussistenza a Roma, contando sull'affinità etnica e i collegamenti in loco. Per anni ho mangiato al Consolato d'Abruzzo, il mio preferito, in prossimità della Sedia del diavolo e, qualche volta all'Ambasciata d'Abruzzo, più rinomata ma, secondo me, più povera di specialità e di dimensioni più ridotte, dove era divertente invitare qualche signora, che allorché andava alla toilette, trovava l'indicazione di "uccelli", con un cardellino sulla porta e "passere", con una cinciallegra paffuta su di un'altra. Casamonica era il capo dell'omonimo clan, aveva cominciato a lavorare in subappalto alla Banda della Magliana, era stato implicato in decine di sequestri di persona dai quali era sempre stato assolto. Recentemente era balzato di nuovo agli onori della cronaca nell'inchiesta sulla mafia nella capitale, che lucrava, in combutta con politici ed amministratori di entrambi gli schieramenti - pur così compositi - principali. E stato officiato, il suo funerale, in una delle basiliche storiche di Roma, il suo carro funebre era un cocchio antico trainato da sei cavalli neri, sulla facciata della chiesa erano affisse delle sue foto ritoccate, vestito come un Papa - il terzo potenziale - o come un Monsignor Milingo bianco. Sotto la gigantografia l'attribuzione, da curva nord della Lazio, di re di Roma; su di un altra icona era annunciato il suo arrivo, da conquistatore, in paradiso, dopo la conquista terrena di Roma. Ad onorarlo in una forma così pagana e superstiziosa - tollerata senza muovere un sopracciglio dal priore della basilica e dalla chiesa capitolina tutta, per un altro inchino, anzi per il trionfo cafone del boss - alla faccia, spero, di Papa Francesco - c'erano certamente i Sinti romani, abruzzesi ed altri ad essi collegati, ma c'erano anche i coatti della periferia est di Roma che aveva colonizzato e dove distribuiva il reddito estorto anche con la complicità di similari istituzioni, a lui legati per tutto quanto atteneva ad una vita parassitaria. La inconciliabilità fra etnie non riguarda dunque la razza, l'estraneità, le migrazioni che, forse, cercano una sistemazione per poter continuare a vivere, ma attengono soprattutto, per me, alle culture, all''idealizzazione delle più becere attitudini materiali "santificate" in chiesa, secondo un sincretismo primordiale e non ecumenico, che hanno trasformato una celebrazione funebre nell'idolatria pagana di un maiale.

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