venerdì 7 agosto 2015

Le virtù celebrative.

Se ne è andato anche Renato Zangheri, il Sindaco di Bologna dal 1970 al 1983, uno dei periodi più turbolenti della storia d'Italia e della crescita civile di Bologna. Zangheri la rappresentò benissimo, sapendo districarsi fra la realpolitik del P.C.I. e le sue "velleità" culturali, Sì, perché il prof. Zangheri fu dapprima assessore alla cultura, materia secondaria e negletta, poco o nulla incisiva in termini clientelari. Senza tradirla, ma interpretandola dinamicamente alla luce dell'evoluzione confusa della società italiana e locale, seppe darle una veste molto incisiva e molto contestata nella interpretazione di una società che si sarebbe prepotentemente laicizzata, dopo i moti del '68 e prima di quelli del '77, che Zangheri amministrò in prima persona all'atto del primo raduno mondiale a Bologna - la provinciale Bologna - dei movimenti studenteschi mondiali, quando per via Zamboni il Ministro degli interni Cossiga schierò i mezzi blindati e il Sindaco-professore un comitato d'accoglienza e di ristoro di prim'ordine organizzati con la CAMST. Tendopoli e dibattiti roventi, ma nessuna vittima. Con il patronato di alcuni suoi colleghi dell'Università di Bologna, aprì il primo Centro omosessuale a Bologna, in uno dei torrioni di Porta Saragozza, resistendo con ironica indifferenza alla reazione della Curia arcivescovile. Si formò all'amministrazione con Giuseppe Dozza, tutt'altro che un intellettuale e con Guido Fanti, un manager della politica municipale, ma la sua impronte fu originale, innovativa e fortemente caratterizzata dalla cultura che fece dire al Corriere della Sera, sotto la direzione di Piero Ottone che "Bologna era in Scandinavia". Gli anni di Zangheri favorirono la creazione del personaggio perché gli consentirono di veleggiare sulla frantumazione del vecchio assetto ideologico e sociale, senza entrare in rotta di collisione con l'apparato del suo partito: un gioco sottile condotto con applicazione e maestria. All'epoca in cui frequentavo anch'io l'Università, mi capito di leggere in bacheca il suo piano di studi per gli esaminandi in Storia delle dottrine politiche: era un compendio molto vasto dei testi marxisti, a cui aggiungeva un testo di Adorno, l'allora esegeta del ribellismo colto in nord america. In ogni caso chi usciva ben valutato nel suo corso, una buona base di marxismo l'acquisiva, anche se era privatamente di destra. Gli toccò anche l'attentato alla stazione di Bologna, che gestì, vera o falsa che fosse l'attribuzione, come un baluardo da erigere alla montante reazione fascista che si diffondeva, in contrasto con le insorgenze post studentesche, che sarebbero in parte sfociate e confluite nelle Brigate Rosse, con consumata maestria interpretativa e divulgativa che gli derivava, non tanto e non solo da una ipotetica interpretazione dei fatti, ma anche dalla sua conoscenza dei precedenti storici, ideologici ed economici consimili nella storia internazionale, unita a quella delle campagne e dei borghi emiliani e romagnoli. Appartato e schivo, divertito e un po' "sopra le parti", seppe assorbire le simpatie dei poveri incolti, dei parvenus radical-chic, ma anche il riconoscimento interiore della parte più acculturata della cittadinanza. Non fu un trascinatore, nè un simpaticone, ma un Sindaco - forse gioco forza - partecipe e significativo nella storia cittadina, certaemnte sì. Se ha lasciato tracce nei successori ci è sfuggito, anche se oggi viene ricordato come se fosse un intimo amico, un frequentatore della casa comune, che invece abitò con severo distacco.

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