mercoledì 26 agosto 2015

Come la Orlandi.

Paolo Adinolfi faceva il magistrato a Roma, quando, ventuno anni fa, è scomparso senza lasciare traccia. Le indagini sono state di prammatica, un isolamento acustico è stato apprestato intorno alla vicenda, di fatto, da allora non se ne è saputo più nulla. Questo giudice stava investigando a fondo su un intreccio di reati riguardante la borghesia professioanle di Roma: fiscalità, flussi di denaro, fallimenti, ecc. In questa opera aveva intersecato, senza saperlo, molti dei personaggi che sono stati scoperti pochi mesi fa nell'ambito dell'inchiesta Mafia capitale. Sulla base di questi inaspettati documenti, la figlia chiede oggi un accertamento approfondito delle responsabilità, per conoscere almeno la sorte di suo padre ed a chi ascriverla. Il giudice certamente aveva proseguito nelle sue indagini, forte della sua indipendenza, senza tener conto dei suggerimenti istituzionali che senza dubbio gli giungevano in quei frangenti nei quali rischiava di svelare precocemente le trame politico-affaristiche della capitale e, nel concreto, sputtanare irreversibilmente ministri, portaborse, assessori e consiglieri comunali, provinciali e regionali, uomini dell'apparato finanziario e burocratico romano. La sua è stata una lupara bianca ambientale più forte di quelle attuali in Sicilia, dove il fenomeno mafioso è talmente contestualizzato da non aver più bisogno di cautele e collanti particolari e dove, almeno in parte, la separatezza della magistratura dalla mafia ( ribadisco: parzialissima ) è un dato assodato, su un cumulo di morti. A Roma i giudici integerrimi spariscono come Emanuela Orlandi e la sua amica Mirella Gregori. A Roma le cerimonie commemorative si officiano sulle note del "Padrino". Fare i giudici fuori contesto e, più probabilmente, in un Paese malavitoso e correo come l'Italia, porta inevitabilmente a tutto questo.

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