lunedì 26 dicembre 2016

La vita non è storia, è libertà.

Georgios Kyriacos Panayiotou, in arte George Michael, è morto "serenamente", in casa sua, a cinquantatre anni. Non aveva malattie specifiche, ma in tutta la sua vita musicale e artistica aveva prodotto poco e molto arrangiato; moltissimo aveva fatto proprio il "demi monde" che gravita precariamente nei dintorni, in cerca di un'alternativa alla vita grigia e oppressivamente convenzionale dei mestieri borghesi. Sono, come lui, artisti, tutti coloro che, mentre faticano sui libri di studi difficili, "non accettano" interiormente di essere solo degli studenti e, sperabilmente domani, solo dei professionisti, ma "deviano", evadono, nella testimonianza, che è rivolta effettivamente solo a se stessi, dell'espressione artistica e non solo coloro che rinunciano a cimentarsi nell'agone dei mestieri corporativi. In questo senso, morire a cinquantatre anni, certamente non serenamente ( non si muore mai serenamente, ma fra gli spasmi della vitalità che si spegne ), dopo aver sperimentato la nevrosi "demoniaca" - che col demonio, che non esiste, non ha niente a che fare - bensì con il "daimonion ti" di Platone e della versione in baccanale, nella percezione del popolo: l'unica perseguitata e perseguitabile - che compendia in un attimo la scelta che si è trascinata anche troppo a lungo. A quasi tutti sembra poco, ma, in fondo, il resto sarebbe stato solo una replica. Si è stancato di accontentarli. George Michael, la nevrosi demoniaca l'ha esperimentata fino in fondo, come tanti altri artisti che, per questa irriducibilità al sentimento dell'uomo medio, erano scomunicati dalla Ecclesia ed espulsi dai cimiteri, dall'accertata convenzionalità alla memoria, come se non si fosse già estraniato volontariamente dalla comunità dei conformisti convenzionali. Per questo, George Michael soffriva di depressioni ricorrenti e profondissime e aveva imparato a miscelare i farmaci con l'acool. Non era un drogato in senso proprio, ma un chimico creativo che aveva sperimentato gli effetti della varia e combinata farmacopea, di cui si serviva, con le gradazioni alcooliche e, per questo, aveva già conosciuto crisi respiratorie e cardiache, parallele all'asfissia spasmodica interiore, dalle quali era riemerso in virtù delle facoltà, ancora giovanili, del suo corpo, di tempra forte, almeno fisicamente. Sì, perché anche la mente è corporea, del tutto intrinseca e soggetta alla chimica organica, anche a quella alcoolizzata, come tutti gli altri organi. Non si sarebbe detto che la sua vita, in gran parte crepuscolare, si svolgesse nella penombra delle sue case sparse per il mondo, quando, di frequente, il male oscuro lo prendeva, per restituirlo all'esaltazione catartica quando teneva - non molti - oceanici concerti, in particolare nella sua Londra, dove era nato e dove è morto. Se ne sarà andato in modo angoscioso e arrovellato, come la sua vita interiore, lasciando agli altri, soprattutto ai giovani, una sensazione di libertà, anzi di liberazione, che vilmente in seguito non hanno scelto e non sceglieranno, ricevendone il riconoscimento momentaneo, trionfale, che lo faceva sentire per un attimo, in compagnia, profeta e, come tutti i profeti, che cantano o gridano nel deserto, sprofondava subito dopo nella cupezza più nascosta che ne inibiva a lungo anche la vena creativa. Ma il mito non ha bisogno di essere visto, anzi, meglio non conoscerlo nella sua debole e sofferente realtà, per continuare ad abbeverarvisi; è chi lo incarna il solo a sapere di che sostanza, di contraddittoria lotta per conservarsi, è fatto. Ma la morte si sconta vivendo e lui, come pochi altri, libero lo è stato e non ha conosciuto la decadenza fisica: questo è un grande risultato. E' morto appartato rispetto a quel mondo adorante ma infedele, perché quello che ha fatto, lo ha fatto solo per sè, come tutti i profeti, il cui testimone modificato viene raccolto, assunto e rappresentato, da qualche istituzione speculativa o da molti discepoli replicanti per influenza e per lucro e a cui, per timida inadeguatezza d'ispirazione, continuano a volgere lo sguardo aspiranti intergenerazionali di un esito temuto. Non importa se sei morto, non importa quanto sei vissuto e, entro certi limiti, neppure come. Hai riempito il tuo spazio e coperto il tuo tempo nell'assurdità trascendente della voragine e della vertigine che solo la libertà folle, da ogni convenzione e accomodamento, sa fornire. Ti sarà forse mancato il fiato, alla fine, ma per tutto il tuo breve tempo hai conquistato, fosse stato solo per un attimo, la franchezza e la leggerezza di un sorriso tutto tuo, in faccia al mondo.

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