martedì 10 giugno 2014

L'irriducibilità della fede unica.

Shimon Peres ha chiuso la sua lunga carriera politica abbracciando Abu Mazen in Vaticano e piantando, insieme a Francesco e ad un metropolita, un albero della pace nei giardini del Papa. Poi è tornato in Israele per cedere il laticlavio a tale Rivlin, contrario a qualsiasi processo di pace e patrono dei coloni. Peres è stato per tutta la sua vita politica un prestigioso leader socialista. Pacifista e spesso critico delle politiche dello Stato sionista, è sempre stato relegato in secondo piano, fino alla tardiva consacrazione presidenziale. Era succeduto ad uno stupratore seriale, condannato per questo a ventidue anni di prigione e cede il posto ad un rappresentante della destra più ottusa e segregazionista. Peres ha in fondo ben rappresentato il mantra dell'ebreo. Pure apprezzato internazionalmente, rare e sporadiche sono state le sue partecipazioni a convegni internazionali. E' stato lui, a poche ore dall'abbandono, a sancire l'assegnazione di un premio a Giorgio Napolitano, definito difensore dell'ebraismo e fiero oppositore dell'antisemitismo. Ma la parabola collaborativa, che pure trovava difficoltà evidenti, anche da parte sua, ad esprimersi, non ha mai trovato sbocchi ed oggi Istraele ritorna precipitosamente sui suoi passi, vanificando il cerimoniale incontro di preghiera. Lo stato dell'arte resta inalterato, anzi rincrudisce nei suoi caratteri contrapposti: il Dio dei tre monoteismi, destinatario di preghiere solo apparentemente uniformi dove sottendono la pace, continua ad ispirare gli oranti in modi difformi e il tentativo ecumenico di Francesco era meglio se non veniva esperito.

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