giovedì 5 giugno 2014

E poi, che cosa ne è stato?

Venticinque anni da Piazza Tiennamen a Pechino, con la foto di un povero ragazzo che frontrggia un carrarmato e di cui non si è mai conosciuta né l'identità, né la sorte. Dopo la caduta del blocco antagonista sovietico, con il quale la Cina è sempre stata in rapporto competitivo, ricercando una sua propria area d'influenza, la dittatura si è consolidata e non ha più avuto sussulti come quello improvvido e sincero dei giovani studenti che desideravano un mondo meno cupo. Invece la cupezza contro ogni espressione democratica si è confermata, mentre la cinesi sociale è stata assicurata da un vorticoso sviluppo anarco-capitalistico che ha fatto cadere anche l'ultimo diaframma interpretativo, per il quale liberi commerci e democrazia erano andati storicamente - almeno finora - di pari passo. Dittatura e capitalismo sono invece compatibili e corrispondono ad una variabile ( di prospettiva ) ma univoca concezione materialistica della vita che, nell'esperienza cinese coniuga arricchimento ed insensibilità morale per le sofferenze e la morte di tantissimi oggetti-schiavi, la cui sorte, data la quantità, è indifferente e per i quali, senza diritti sociali, "l'esuberanza" occidentale non è conosciuta. In tutto questo non c'è un barlume di coscienza civile, di spirito illuministico, di compensazione economica e politica. Anzi, la presenza, anche larvale, di questi elementi metterebbe a rischio il sistema dittatorial-economico, come in precedenza la tenuta di quell'allora poverissimo regime. Sono vent'anni che è scomparso Enrico Berlinguer, mitizzato Segretario del Partito comunista italiano che portò nel corso di dodici anni, prima di essere spezzato da un ictus durante un comizio a Padova, a condividere con la D.C. morotea un breve tragitto all'insegna del compromesso storico, prima avvisaglia di un modello compromissorio che si sarebbe trasformato nelle tanto di moda "grandi coalizioni", dove l'alterità maggioranza-opposizione si stempera in un corporativo andazzo compromissorio. Sono queste le forme di governo dei periodi privi di bussola. Moro sarà ucciso da un nucleo partigiano che, utopisticamente aveva continuato a ragionare, senza che ne esistessero più i presupposti, secondo i canoni del leninismo, più che del marxismo dottrinario. Berlinguer suggestionò tutti gli Italiani per via del suo monachesimo e della sua integrità personale. Anche quelli che per indole e costume mai si sarebbero acconciati al modello che proponeva, gli riservavano un ossequio sentito per la comune formazione cattolica di quasi tutti noi, più che per le novità ideologiche che si limitavano ad affernazioni di maniera sulla NATO, per mitigare i malumori americani e sulla perdita di propulsione del sistema nato dalla Rivoluzione d'Ottobre, che in realtà fu Novembrina. Il suo maggior merito, la sua alterità col modello democristiano con il quale si era diluito, consisteva nella denuncia della corruzione come male mortale della società italiana, ma la sua denuncia toccava i canoni della moralità personale che avrebbe dovuto informare, definitivamente, quella pubblica. La sua moralità non era dunque quella nordica del capitalismo, ma quella familiare e domestica nella quale si dovevano attestare i rapporti fra le persone e le classi. La sua era un'invocazione ad una impossibile moralità di popolo, condivisa e comune. Proprio per questo, i suoi funerali emularono quelli di Togliatti; alla sua salma resero omaggio tutti, anche Giorgio Almirante, Segretario dei fascisti del MSI, chiese e fu ammesso a salutarlo, ma la sua aspirazione, molto condizionata dalla innaturale ibridazione con i cattolici, altrettanto, ma ben diversamente conservatori, aveva più dell'aristocratico latifondista sardo, pur fulminato sulla via di Damasco del riscatto immaginario del popolo minore, che del radicale rinnovamento della vita politica. Ne ebbe paradossalmente di più suo cugino, Francesco Cossiga, quando, dalla Presidenza della Repubblica, picconò la prima Repubblica e i suoi partiti, compreso il suo.

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