lunedì 12 gennaio 2015

Un eco sull'attualità che non "suona" più.

Sono già passati sedici anni dalla morte di Fabrizio De André, poeta e cantautore genovese. La sua vita, interrotta da un cancro, ci ha lasciati orfani delle sue ricorrenti interpretazioni musicali della realtà in via di deframmentazione, che, poco prima di ammalarsi aveva anticipato con sagacia nella "Domenica delle salme". Noto, seguito, De André era per molti versi rimasto un autore di nicchia. Privilegiava i testi che scriveva personalmente, dopo avere per anni, all'inzio, tradotto quelli degli chansonniers francesi. L'Università di Siena ha dedicato una cattedra alla sua poetica ed ai suoi contenuti civili. E' uno degli autori che ho amato di più, apprezzandone la chiarezza, lo spirito provocatorio, i suggerimenti interpretativi, la stanchezza e il disincanto. La parola come architrave della creazione e non la modulazione-rivisitazione musicale, l'ibridazione musicale e dialettale di Pino Daniele fra il blues e la melodia napoletana. Ritenevo e ritengo che la canzone nazionale non possa prescindere dai buoni testi, dalla lingua correttamente parlata, da quell'ironia anti-plebea e anticialtrona che il popolare, per scelta culturale ed artistica, Fabrizio de André, ha illustrato con chiarezza adamantina, facendosi apprezzare dagli italiani senza vincolo di vernacolo e di meticciati sentimentali, senza nulla togliere alla sensibilità comune sottostante che queste versioni contaminate delle melodie internazionali hanno, da un lato, magistralmente proposto e, dall'altro, astutamente manipolato.

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