giovedì 1 gennaio 2015

Rapporto OCSE. Il fisco.

Si calcola che l’evasione fiscale in Italia ammonti a un importo compreso (a seconda della metodologia di stima) fra i 90 e i 140 miliardi di euro. Non si tratta esclusivamente di una questione di ordine etico, sebbene quest’ordine di motivazione sia ovviamente di massima rilevanza, ma anche di un problema di massima rilevanza per la crescita economica e la distribuzione del reddito. Innanzitutto, va rilevato che, in presenza di un’elevata evasione fiscale e di un elevato debito pubblico, la tassazione su famiglie e imprese che non evadono né eludono è ovviamente molto elevata; cosa che contribuisce a spiegare l’elevatissima e crescente pressione fiscale in Italia, e il fatto che essa è strutturalmente più elevata della media europea. E’ palese che l’illegalità ha un costo. Ed è possibile rilevare che un’elevata evasione fiscale è un problema non solo perché riduce il tasso di crescita, ma anche perché contribuisce a rendere sempre più diseguale la distribuzione del reddito. Ciò per le seguenti ragioni. 1) L’economia italiana sperimenta l’apparente paradosso di una costante riduzione della spesa pubblica e di un costante aumento del debito pubblico, non solo in rapporto al Pil ma anche in valore assoluto. Si tratta di un paradosso appunto apparente, la cui soluzione si rileva in questa sequenza. La riduzione della spesa pubblica comporta riduzione dell’occupazione e del tasso di crescita. La riduzione del tasso di crescita accresce il rischio di insolvenza da parte dello Stato, ovvero accresce la probabilità che lo Stato non sia più in grado di onorare il suo debito. Ciò impone allo Stato di emettere titoli con tassi di interesse crescenti, per far fronte alla loro maggiore rischiosità. In più, in un assetto istituzionale nel quale è fatto divieto alla Banca Centrale di “monetizzare” il debito (ovvero di stampare moneta per acquistarlo), la tassazione finisce pressoché inevitabilmente per gravare sul lavoro e sulla piccola impresa. Nel Rapporto OCSE 2014 “Taxing wages”, si legge che la tassazione sul lavoro, in Italia, è la più alta fra quella dei maggiori Paesi industrializzati, e che la tassazione in Italia supera nettamente la media OCSE soprattutto sui salari più bassi (44,7% contro 32,2%). Ciò a ragione della duplice considerazione che non è conveniente né tassare i propri creditori né tassare potenziali contribuenti che godono di elevata mobilità territoriale. Si consideri, a riguardo, che il principale creditore dello Stato è il settore bancario, che potrebbe reagire a un aumento della tassazione sui suoi utili riducendo l’acquisto di titoli; e si consideri anche che le grandi imprese possono reagire a un aumento della tassazione minacciando la delocalizzazione (o realizzandola di fatto). In entrambi i casi, le entrate fiscali derivanti dalla tassazione di questi potenziali contribuenti potrebbero essere di entità irrisoria o, al limite, nulla. E, ancor peggio, nel primo caso si determinerebbero ulteriori problemi di vendita di titoli di Stato e, con riferimento alle delocalizzazioni, si determinerebbero ulteriori riduzioni del tasso di crescita, come conseguenza dei minori investimenti. A ciò si può aggiungere che l’incremento della tassazione sul lavoro genera un duplice effetto recessivo. Un’elevata evasione fiscale, in quanto si associa a maggiore tassazione sul lavoro dipendente, genera effetti ridistributivi a danno dei percettori di redditi bassi, ovvero di famiglie con più elevata propensione al consumo. Ne segue una riduzione dei consumi, della domanda, dell’occupazione e del tasso di crescita, che delinea una spirale viziosa per la quale, a fronte della contrazione del tasso di crescita e della conseguente maggiore rischiosità dei titoli del debito pubblico, si rende necessario accrescere ulteriormente la tassazione sul lavoro, per far fronte all’aumento dell’onere del debito. In più, un’elevata tassazione sul lavoro, e dunque la riduzione dei redditi disponibili, deteriora la qualità del lavoro stesso, dal momento che rende più difficile l’accesso ai servizi sanitari e all’istruzione, con conseguente calo del tasso di crescita della produttività. Questo effetto è accentuato dal fatto che la contrazione dei consumi e della domanda riduce i profitti (e/o genera fallimenti), riducendo gli investimenti e producendo – anche per questa via – effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro. 2) Assumendo data la “moralità fiscale” dei contribuenti, in quanto la riduzione della spesa pubblica si traduce in una riduzione dell’occupazione nel settore pubblico (dove il prelievo fiscale è alla fonte ed è dunque limitato, se non nullo, lo spazio per l’evasione), ciò contribuisce quantomeno a rendere possibile ulteriori aumenti dell’evasione fiscale.

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