venerdì 30 gennaio 2015

La ricerca dell'equilibrio dell'ubriaco.

Di fronte agli stentati conati dell'elezione al Quirinale di una figura notarile, di esclusiva valenza interna, incapace di disturbare i due manovratori, quello europeo e quello demandato in patria e le elezioni in Grecia, corre il crinale fra il compromesso a tutti i costi ( per gli altri ) e la presa di posizione popolare, netta ed incisiva. Marca anche il discrimine fra la correità con il potere dominante e la capacità autonoma di investirsi dei problemi del proprio popolo e di portarli in un contesto allargato. L'ipotesi di un democristiano di sinistra, fratello di un caduto sul fronte palermitano, schivo e pandettaro è perfettamente in linea con la neo D.C. renziana; accantona qualsiasi ipotesi alternativa, anche sul piano morale, cioè dei costumi politici, che solo una figura fuori dai giochi, potrebbe rivestire. Mattarella è stato spesso ministro e quando le fortune della sua dispersa e onnipresente compagine onnicomprensiva, sotto l'egida unificatrice ( apprentemente ) cattolica sembrava aver smarrito la sua "missione" unitaria, è sempre rimasto "in zona" andando infine a ricoprire, in quota al PD, la veste di giudice costituzionale, insieme al neonominato Giuliano Amato, in quota ecumenica o delle larghe intese. La fretta inconsulta con la quale si vuole addivenire alla nomina e la difficoltà a compattare le parti in carenza degli inevitabili dosaggi di interessi, rimanda il "redde rationem" a cose fatte, quando, perdurando la sconcertante evanescenza dei movimenti politici, il Presidente sarebbe chiamato a fare il dominus per conto della unione europea e dei poteri prevalenti, barcamenandosi fra ogni sorta di persistente incongruità. La politica italiana, privata delle sue due polarità post belliche e costituzionali, si dibatte in un continuo puntello dei suoi claudicanti equilibri. In Grecia, invece, la vittoria elettorale autentica, non attraverso nomine e liste bloccate, è stata una chiara risposta popolare di sinistra alla crescente, strangolante concentrazione economica del capitalismo finanziario che ordina l'impoverimento di massa e celebra la disperazione quotidiana come prova dell'esistnza di un dio chiamato rigore. L'esperienza francese risulta, alla prova dei fatti, flebile. La forte spinta lepenista, regressiva e tardiva rispetto ad una tradizione d'immigrazione cinquantennale in Francia, ne è la dimostrazione più lampante. Dell'Italia non varrebbe neppure la pena di parlare, avviluppata com'è in ogni sorta di compromesso "decisionista", non più o non solo fra le fazioni, ma fra i creditori e i destinatari delle loro imposizioni. In Italia, infatti, nessuno si è posto e si pone l'obiettivo ed il compito di contrastare l'austerità e i suoi imperativi ed è facile per i poteri prevalenti troncare ogni minima traccia di una riaffiorante autonomia politica del lavoro. In Grecia, come in Italia, c'è stato un colpo di Stato alla base della folle politica di abbattimento del welfare, ma la sterilizzazione della dialettica politica, frutto delle nostre "fusioni impossibili", non c'è stata e la facoltà d'espressione, alla fine, è tornata al popolo. In Italia il presente è solo decadenza, decadenza alla quale i Greci si sono ribellati e hanno riallacciato i filamenti con le radici storiche della sinistra che Matteo Renzie ha scambiato indecentemente fra riforme contro i lavoratori e flessibilità nei conti, nella quale cercare di continuare a ciurlare nel manico per le clientele da cui proviene. I Greci non hanno fatto abiura: contestando il presente hanno recuperato e rimesso in pista le idealità politiche del loro passato, le tradizioni che sono o sarebbero però anime morte se i loro eredi firmassero la resa all'antipolitica che usa il chiacchiericcio e l'accordo più volgare come maschere degli appetiti delle cricche di potere.

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