lunedì 6 gennaio 2014

Crisi e terapie.

La Fondazione che controlla il Monte dei Paschi di Siena, ha rifiutato l'aumento di capitale chiesto da Profumo, insieme alla "razionalizzazione" della rete che sta comportando il ridimensionamento di ben quattrocento agenzie, del MPS originario e dell'acquisita Banca Popolare Antonveneta. La Fondazione, che accorpa politici, amministratori, loro prestanome e una galassia di azionisti privati, divenuti in buona parte imprenditori all'ombra della cupola rossa e ad essa strettamente riferentisi, ha seccamente respinto qualsiasi ipotesi di rifinanziamento gestionale dell'istituto di credito, ereditato dal Ministero del Tesoro che, nel precedente regime bancario, controllava anche il Banco di Napoli, l'Istituto bancario San Paolo di Torino e il Banco di Sicilia. E' strano che un Ente opaco fin che si vuole rifiuti un sacrificio temporaneo, mettendo a repentaglio la sopravvivenza del proprio braccio finanziario e che si rattrappisca nella difesa dell'indeterminateza patrimoniale effettiva, in parte pubblica, per non disvelare i numerosi e reticolari intrecci fra amministrazione e banca. La sorpresa sarebbe solo nazionale, perché localmente tutto ruota intorno al MPS e tutti sanno dettagliatamente di che cosa si tratta. Il MPS finanzia la vita economica di tre province toscan: Siena, Pisa e Arezzo, sotto l'egida spartitoria che le attribuiva all'ex P.C.I. Mischiato il vino rosso con l'acqua ex democristiana, il MPS aveva fatto il passo più lungo della gamba e se la era rotta. Lo sproposito pagato per l'acquisizione della Banca popolare Antonveneta, se ne era andato in rigagnoli clientelari tradizionali e verso il nuovo partner, la ex Margherita prima, dove pare che "si riesca a dimostrare" che, a rubare, c'era solo l'amministratore Lusi e, infine, verso il P.D. E' trasparente solo una cosa: le fusioni politiche fra soggetti ex storici sono andate di pari passo con le fusioni bancarie, sia delle banche pubbliche del Tesoro, sia delle tre B.I.N., private, ma ex I.R.I. Attraverso questi processi, non si è solo voluto riconvertirle alla competizione privatistica, che già sussisteva, dal 1989 in poi, ma soprattutto ridisegnare e ripartire fra i soggetti costituendi, la possibilità di fondarsi e sostentarsi indirettamente, come prima, in uno scenario internazionalizzato e molto meno identificabile, "liquido", come i partiti e movimenti vari, da destra a sinistra, attraverso un processo di irrobustimento dimensionale che avrebbe dovuto mettersi al servizio dell'impresa italiana nel mondo. Era un evidente pretesto perché solo la concorrenza fra Istituti di credito con ramificazioni nei principali mercati finanziari, ma anche industriali, dei paesi più significativi del mondo, avrebbe portato i più solidi, alla prova dei fatti, ad acquisire le spoglie degli altri ed a proporsi come strumenti finanziari di riferimento per le attività produttive e di esportazione. I soccombenti avrebbero potuto trovare sinergie efficaci proprio in quegli ambiti che oggi sono più scoperti e che stanno portando all'estinzione della piccola e media industria. Sarebbe stato un processo più lento e più doloroso, perché avrebbe "sconvolto" le aspettative di una categoria che, pur non più protetta, non aveva nel suo DNA, l'abitudine alla fatica traumatica del lento ridisegnarsi degli assetti strutturali dello strategico settore economico. Ma, soprattutto, molti manager, direttori generali e via a cascata, avrebbero dovuto abbandonare le comode posizioni di rendita e cercare sul mercato, nazionale ed estero, un ruolo equivalente: mission impossible. Neppure nel dinamico, efficiente e produttivo ambito settentrionale d'Italia, un'ipotesi del genere, con lo sconvolgimento degli equilibri di potere, sarebbe stata accettata, in considerazione del parallelo e accidentato riposizionamento della politica "regionale" o compartimentale. L'ipotesi che aveva in animo Andreotti, di trasformare la Banca di Roma nella Mediobanca del Sud, era funzionale a sottrarla alla ristrutturazione degli altri Istituti (inter)nazionali, che ha conosciuto molti caratteri simili alla lotta oligarchica degli ex papaveri delle dittature est europee ed a costitursi una fortilizio inespugnabile in un'area nella quale copriva, con centinaia di migliaia di voti di preferenza, il Lazio, la Campania e la Sicilia ( non dimentichiamo che la Banca di Roma aveva dovuto, poco prima, comperare il Banco di Sicilia ). Sappiamo tutti come è andata. In Toscana e a Siena segnatamente, il carattere locale della banca territoriale, si era conservato e, intorno ad essa, si erano coagulati interessi provinciali e piccole fortune. Per decenni, le sinergie finanziarie fra i senesi e i bolognesi di Unipol, hanno costituito, dapprima, il polmone ufficioso, ma noto, del Partito comunista e infine il tratturo costitutivo di un nuovo, ibrido soggetto politico e finanziario, che, democratizzandosi, ha dato subito gli esiti impliciti. Le strade, però, si sono interrotte prima che l'ibridazione, ora in fase di rigetto, che avverrà o meno, secondo convenienze, nell'accezione complessa della situazione deframmentata che tutta la politica italiana conosce, dal crollo dei precedenti assetti post bellici, avesse luogo. Ammesso e non concesso che ci fosse una reale volontà di giungervi, anziché trascinare un rapporto tattico infinito alle sue sterili conseguenze. Fu Unipol a separarsi ed a tentare una improvvida scalata alla B.N.L. e a concentrarsi, dopo la cacciata di Consorte, sulla costituzione di un polo bancario e assicurativo di buon livello, l'unico residuo con la Direzione generale a Bologna, dove, vent'anni fa, ve ne erano ben otto. Il "generone" senese-pisano-aretino, l'enclave capitalistica rossa, si è ripiegata sui suoi egosimi come un avido privato qualunque e non si cura delle esigenze di capitalizzazione del suo braccio finanziario; conta, sottotraccia, in una statalizzazione surrettizia - che provocherebbe gli strepiti della Barclays e degli Inglesi - all'interno della quale sperano di contrattare un'invarianza dei loro interessi e dei loro patrimoni. Se il gioco è diventato chiaro e pulito, questo non dovrebbe più succedere. Come qualsiasi altra impresa privata, quali che ne siano stati i presupposti storici reali, MPS e i suoi azionisti dovranno investirsi degli adempimenti societari. Se non vorranno, dovranno vendere - se consentito, anche allo Stato, ma a condizioni privatistiche, come attualmente previsto - ma, ciò facendo, dovrebbero mollare la presa radicata, sul territorio e sul potere finanziario che, per conto terzi, detenevano. E' su queste criticità di un assetto corporativo arlecchinesco che si cerca gattopardescamente di mantenere sotto nuovi travestimenti, che si gioca la modernizzazione dell'Italia, intesa in termini non retorici, né fideistici: sta di fatto che questa è la "modernizzazione" su cui misurarsi e che, non solo l'Italia, ma tutti i Paesi della zona meridionale dell'Unione, stanno tentando di aggirare.

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