giovedì 29 maggio 2014

L'arte dell'adeguamento dissimulatorio.

Il Generale Al Sisi ha vinto le elezioni presidenziali in Egitto, candidandosi dopo il colpo di Stato di nove mesi or sono, mentre il legittimo Presidente languisce in carcere ed i suoi adepti, i Fratelli musulmani, sono di nuovo perseguitati e costretti alla clandestinità, da cui emergono con attentati, appena possono. Prima a qualcuno viene in mente di "fondare" la democrazia in Egitto; la democrazia si rivela foriera dell'affermarsi dei tradizionalismi, in quanto il popolo ne è seguace. Le potenze sobillatrici delle primavere arabe ritornano sui loro passi, i trentennali dittatori vengono subito scarcerati - un po' come la Timosenko in Ucraina - e l'usurpatore viene eletto, ma solo dalla metà del popolo. L'astensione dell'altra metà non è rinuncia, ma radicale rifiuto, foriero di violenza sui due versanti. In Italia, l'itinerario tracciato dalla U.E e dal Presidente della Repubblica, ha conosciuto, al terzo tentativo, l'investitura di un nominato, con un tale plebiscito moderato, compromissorio e cautelativo, da lasciare, purtroppo per l'ennesima volta, basiti. Non si tratta di rifiutare un verdetto univoco o quasi di quel 56% che ha votato, quanto di constatare come il combinato disposto degli egoismi, delle paure che ne derivano, insieme alla vocazione alla delega personalistica, incoronino un reuccio, un po' buffo, con ampie ali, ma poche palle. Si aderisce allo slogan più vieto dell'economicismo da penuria, che non esclude gli aiutini di Stato: rottamare, ridurre, superare, cancellare, come se tutto questo non fosse fine a se stesso, bensì servisse ad aprire varchi - che invece si vogliono murare - all'ingresoo di chi si attarda ancora ad aspettare fuori. In questa fase post-democratica, le posizioni convenzionalmente più robuste dettano legge a tutte le altre e garantiscono inaspettate carriere politiche, al patto tacito dell'acquiescenza.

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