sabato 30 luglio 2016

Son tutte belle le mamme del mondo...

Marina Abramović è un'artista serba naturalizzata statunitense. Se fosse stata naturalizzata italiana si sarebbe ben guardata dal fare le seguenti dichiarazioni. Avere figli e fare una carriera non sindacalizzata ( ai tempi suoi ) sarebbe stato impossibile. Per questo, Marina Abramovich, ha scelto, per tre volte, di abortire. Potrei citare il caso di un'altra importante artista italiana, usa a praticare l'aborto come un contraccettivo tardivo, tanto che, in extremis premenopausico, coniugata con un altro notissimo personaggio, non riusciva più ad impiantare l'ovulo sulle scorticate pareti uterine. Conosco il suo ginecologo e, oltreché gratuito, mi sembra indiscreto nei suoi confronti. La Abramovich lo dice senza ipocrisie: fra la maternità e la sua carriera di performer, ha scelto la seconda, avendo la possibilità di coltivarla, possedendo le competenze sperimentate per non sentire la maternità come una forma di realizzazione alternativa all'individualismo di successo. Una scelta di vita e non una scelta per la vita degli altri. Quale, poi? Nella sua testimonianza si diffonde sull'antitesi fra vita e opera ed avvertendo che il tempo è poco e che per affermarsi o mantenere il successo è necessaria un'abnegazione ed una dedizione assoluta, per cui, chi vi si dedica, a fini di autogratificazione, sceglie implicitamente, fin dall'origine e seleziona le scelte utili per la sua esistenza. L'esperienza delle altrimenti qualificate professioniste, in ogni ambito sociale, è identica: la procreazione attiene all'insoddisfazione narcisistica o cerca di sostituirsi ad un lavoro troppo gravoso, almeno nelle donne borghesi, ma chi, in qualsiasi campo ed in qualsiasi modo, ha attinto alla realizzazione e all'identificazione con un ruolo reiterabile nelle professioni, non sceglie la maternità e questo senza giungere alle performances dell'Abramovich, spesso estenuanti nella preparazione e nell'esecuzione. Per continuare a carburare sul volano dell'estetica personalizzante o, sul percorso contrario. per prigrizia o inadeguatezza. L'assimilazione della mentalità borghese a tutti i livelli, anche modesti, della società dell'impiego, ha calmierato la "produttività" procreativa femminile, ma altre incubatrici di altre etnie e religioni migranti, stanno provvedendo a sostituirle. Non esiste nessun serio rischio demografico mondiale; in ogni epoca e condizione economica le donne di successo, così come gli uomini effettivamente ricchi, sono stati e resteranno eccezioni, fatte di fortuna, ereditarietà, coniugio e, molto più di rado, di sacrifici finalizzati duri e pesantissimi. Avere un figlio è un'esperienza totalizzante, averne più di due, dispersiva. Anche un solo figlio richiede anni e anni di cura e di dedizione, perché ha bisogno di tutto, come un grande anziano che, ben di rado muore in seno ad una famiglia, perchè deve essere nutrito, cambiato, fatto giocare, assistito quando è malato, giorno e notte. Quando cresce subentrano gli accompagnamenti a scuola, alle attività sportive e un lavoro costante di educazione, fatto di dialogo, di ascolto, di esperienze comuni, che portano via tantissimo tempo e che stancano, se associate ad altre incombenze. Tutto questo si scontra inevitabilmente con le esigenze del lavoro: figurarsi quando questo è ultra-assorbente oppure, come nella maggior parte dei casi, è precario, frammentato, deprivato di tutele. La Abramovich ha detto con autenticità che tutto ciò che, in società come la nostra, tutti si affannano a negare è invece un compito arduo, quasi proibitivo da conciliare e che negare che maternità e carriera siano antitetiche, è falso. Per questo, le maternità si fanno sempre più tardive, quando non si hanno più possibilità, velleità, presunzione e desiderio, anche alla luce delle crescenti difficoltà ed intensità lavorative, di ulteriori riconoscimenti. Conclude la Abramovich: non possiamo avere tutto.

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