domenica 27 novembre 2016

Testimonianze.

La Repubblica, in occasione della morte di Fidel Castro, ha ripubblicato l'intervista fatta nel 2006 a Gino Doné Paro, unico italiano sul Granma, lo yacht a bordo del quale Fidel Castro partì, precisamente 60 anni prima della morte, il 25 novembre 1956, dal Messico verso Cuba con un gruppo di rivoluzionari durante la rivoluzione cubana, emulo, con molte meno unità, di Giuseppe Garibaldi. La faccio mia e la offro ai lettori. E' una testimonianza di vita avventurosa, nella versione storica dell'internazionalismo proletario, antesignana utopistica di un'altra utopia distruttiva: il globalismo, capitalistico nella versione finanziaria, come il comunismo lo è stato nella versione di coloro che sono costretti a prestare il loro lavoro ed a riporvi ingenuamente le loro speranze di realizzazione. Ingenuamente perché i posti sono prenotati. L'utopia comunista è stata tale solo perché perdente, per la festa dei tifosi della squadra avversa, con la quale non c'entrano niente, ma con cui si identificano; quella capitalistica specula anche sulle crisi che provoca, perché conta sull'assenza d'impegno ed anche della capacità di comprendere delle masse popolari.Fra le "utopie", quella di Fidel Castro non è stata sconfitta. "Ride come un bambino, Gino Donè Paro, 82 anni e mezzo. "Sono felice perché sono all'Avana. Fuori dalla finestra vedo le palme maestose e belle. Quando sono qui, mi sento cinquant'anni in meno". Un solo rammarico, per il 'companero Gino, el Italiano'. "Volevo venire qui come privato cittadino a trovare i miei amici. E invece sono nel protocollo, trattato come un ambasciatore". Ma non è sorpreso, 'el Italiano' arrivato da San Donà di Piave. "Ormai noi del Granma siamo rimasti in pochi, e ci trattano con i guanti. Forse riuscirò a vedere il compagno Fidel. Con lui e Raul parleremo di quello sbarco, di quei giorni di paura e di coraggio. Parleremo di Ernesto Guevara, che era mi hermano, mio fratello. Sono stato io a insegnargli a sparare bene, e soprattutto le tecniche della guerriglia. Già allora ero il più vecchio di tutti. E avevo una certa esperienza: in Italia avevo fatto il partigiano. Spiegavo a Ernesto come si organizzano gli agguati, come si attacca e come si fugge. Insomma, gli ho dato la giusta istruzione". "Io, l'italiano della barca di Fidel insegnai a Guevara a sparare" Condividi Cinquanta fa, il 2 dicembre, lo sbarco del Granma sulle spiagge cubane di Las Coloradas. è l' inizio drammatico della rivoluzione. "Ci eravamo preparati in Messico. È lì che ho conosciuto Ernesto. Lui era un bravo medico, ma con le armi era inesperto. Se sbagliava un tiro, durante l'addestramento, io lo incoraggiavo. Insomma, credo di essere stato un buon maestro. Il viaggio sul Granma non si può dimenticare. Doveva durare tre giorni e invece siamo stati in mare per sette giorni. Il comandante assoluto era Fidel Castro, e poi c'era Raul che dirigeva tre plotoni. Io ero tenente, capo di uno dei plotoni. Fidel era un vero un comandante. Ti dava sicurezza, capivi che aveva un progetto preciso. Ma per il resto là sul Granma, secondo me, più che responsabili eravamo tutti dei pazzi, ma pronti a dare la vita uno per l' altro". Gino Donè Paro sembra raccontare un romanzo dei Tre moschettieri. "Uno per tutti, tutti per uno. Dopo due o tre giorni i viveri erano finiti. Avevamo fame e sete, ed eravamo stretti come sardine in quello yacht che aveva 8 posti in tutto. Ci si poteva stare anche in 20, ma noi eravamo 82. Ed io ero uno dei quattro stranieri, l'unico italiano, anzi l'unico europeo. Alla fine abbiamo finito anche il carburante". "Quattro ore per superare arbusti e mangrovie, e poi siamo stati attaccati dagli aerei di Batista. Ci dividemmo in gruppi, come mi aveva insegnato l'esperienza di partigiano. I chiodi degli scarponi ci bucavano i piedi. Ernesto mi aiutò, curando le ferite. Ma io soccorsi lui quando ebbe una crisi d'asma. Sì, ho fatto il medico curando un medico, perché per fare stare meglio le persone non ci sono soltanto le medicine, ma anche le coccole. Gli feci dei massaggi, piano piano, e lui si riprese. Dopo quei giorni non l'ho più incontrato. Io non l' ho mai chiamato Che, perché questo soprannome non gli piaceva. È un intercalare argentino. È come se avessero chiamato me 'Ciò', solo perché sono veneto. Anni dopo l'ho aspettato in Perù, mi hermano Ernesto, ma non siamo riusciti a fare incontrare le nostre strade". C'è anche un encomio firmato dal generale Harold Alexander, comandante delle forze alleate in Italia, nella vita di Gino Donè. "Quando facevo il partigiano, ho salvato dalla laguna e dai tedeschi degli ufficiali inglesi. Finita la guerra, ho capito che nel mio Veneto non avrei trovato da lavorare. E sono partito". Una tappa in Canada, poi Cuba. "Ho lavorato come muratore, carpentiere, decoratore, ruspista. All'Avana ho avuto la fortuna di incontrare Fidel Castro quando era presidente dell' associazione degli universitari". Nessun dubbio, anche dopo 50 anni. "Fidel è il Comandante e a Cuba c'è la vera libertà". Ma perché un italiano emigrante si trasforma in guerrigliero? Ancora una volta, la risata di un bambino. "Perché, anche se ero il più vecchio - quando ero sul Granma io avevo 32 anni, Fidel 30 ed Ernesto solo 28 - avevo il sangue che mi bolliva. Facevo il carpentiere, ma dentro ero ancora un maledetto partigiano. E allora, se vuoi bene alla patria, ai tuoi fratelli, alla famiglia, devi scegliere. A San Donà del Piave dovevi scegliere fra nazisti e fascisti e la libertà che stava dall'altra parte. Lo stesso problema lo trovai a Cuba. Da una parte c'erano il maledetto Batista e i suoi sicari, dall'altra Fidel, Raul, Ernesto e gli altri companeros". 'El Italiano', pochi mesi dopo il viaggio del Granma, deve espatriare. Fa il marinaio per anni poi si ferma negli Stati Uniti. Ci resta fino a tre anni fa, quando torna a San Donà di Piave. "Sapevo della presenza di un italiano sul Granma - dice Gianfranco Ginestri, scrittore di libri e guide su Cuba - e ne ho avuto conferma dalle nipoti di Gino a San Donà, quando ancora lui era negli Usa". Gino Donè fra pochi giorni tornerà al suo paese sulla riva del Piave. "Io sono stato educato in mezzo ai preti, Ernesto era invece un marxista e leninista vero. Eppure siamo diventati fratelli. Mi hanno chiesto se sono anarchico, comunista, rivoluzionario... Io sono soltanto un maledetto selvaggio. Però osservo il mondo e vedo che c' è sempre qualcuno più povero e più ignorante di me. E oggi, chi dà una mano ai proletari? Forse ci vorrebbero ancora uomini che decidono di essere fratelli. Hasta siempre".

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