martedì 18 ottobre 2016

La gimcana dell'anima.

Trent'anni di reclusione alla madre-amica siciliana che, anche secondo i giudici, probabilmente se la faceva con il suocero, un settantenna vigoroso, certamente attivo. Una figura minuta, invece, la mamma, ma in preda al disordine ormonale, nel quale confondeva i ruoli e si rifugiava nel calcolo femminile più angusto, non gestibile in presenza di estranei. Per questo ha ucciso suo figlio, che in quei ruoli era già inserito e quindi dei medesimi edotto. Forse, edipicamente geloso, ingannato dall'atteggiamento falso-amichevole della madre, gettato lungo un argine, pianto teatralmente durante le ricerche e il funerale, proiettati sul suocero-amante i suoi atti attraverso una trasposizione d'intenzioni, che il più solido partrner forse non aveva mai coltivato, attento solo al raccoglimento e alla costante gestione del frutto maturo, forse solo scambiato per tale, perché in realtà, era un po' marcio. Ma non è per queste considerazioni extragiuridiche che la mamma sicula è stata condannata, lo è stata per una congerie di atti coerenti che i giudici hanno ricostruito. Conscia della condanna imminente, è rientrata in carcere cantando la litania del: "sono innocente". Calcola adattamenti, adeguamenti, riduzioni di pena, affidamenti vari, come Anna Maria Franzoni, l'omicida del figlio "testone" raccomandata per via di parentele e probabilmente, oggi, in qualche struttura di rieducazione nella quale far finta di espiare una pena che è stata solo della sua vittima. Per questo, lo sciopero della fame di Roberto Savi non deve stupire: è da rigettare la sua intenzione autoassolutoria, ma la sua strategia è la medesima - criminale - delle due mammine, l'una emiliana, l'altra siciliana, accumunate solo da uno spirito malignamente muliebre che si è estrinsecato in contesti, situazioni, con personalità ed influenze specifiche, in presenza di un'indubbia malattia mentale che non deve servire a stemperare le responsabilità. Nel caso di Roberto Savi gioca l'immaturo senso di potenza, di ricchezza di anarchia gratificatoria, ma gli è ignoto il senso del "carpe diem" oraziano per cui vale di più un giorno da leone che cent'anni da pecora o da poliziotto. Avrebbe altrimenti dovuto uccidersi, ma per se non lo ha contemplato. La sua aspirazione era appropriarsi, annientare, ma soprattutto viver bene e oggi non sopporta più il regime della relegazione. Vorrebbe assurdamente, naturalisticamente, tornar libero perchè considera assurda, incomprensibile l'espiazione; non sta espiano niente, si annoia soltanto. Ha perso i riferimenti: all'esterno del carcere non potrebbe più nascondersi dietro a niente e la sua vita sarebbe grama; prima esercitava in termini irrituali una violenza non estranea alle forze di polizia e metteva in pratica un'ideologia del dominio in troppe occasioni venuta in luce nel corso dell'esperienza cronachistica. Mentre la Franzoni sembrava toccata da qualche trauma familiare, maturato nella sua pletorica, patriarcale e benestante famiglia, la "Lupa" siciliana sembra subire il richiamo di una primitività dei sensi che mal si attaglia alla sua figura minuta e apparentemente smarrita, mentre invece si traduce in calcolo, subdola applicazione e infine delitto. La storia giudiziaria di questi fatti non rende il senso storico-psicologico delle personalità in cui il puzzle disordinato, anzi impazzito, della psiche atavica di ciascuno, ha tracciato il suo tortuoso percorso.

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