domenica 15 novembre 2015

Fra le righe.

Avete fatto caso che gli attentatori muoiono sempre tutti? Che a nessuno di loro si riesce a fare un processo, cioè che lo strumento per eccellenza dell'accertamento della verità da parte della Civiltà (di tutte le Civiltà d'ogni tempo e latitudine) con questi terroristi è inutile? La verità dei media, invece, ci arriva sempre e rapida. Gridano “Allah è grande”, sempre, questi attentatori. E poi muoiono. Del prima e del dopo non sappiamo mai niente, su di loro, come sulle loro vittime, cala l'oblio riservato agli inutili, mentre, processualmente, cioè per via di indagine razionale e di verifica con gli istituti della legalità democratica, "non si da luogo a procedere". A Beslan, all'apertura dell'anno scolastico, fu catturato un attentatore. Che fine ha fatto? E' ancora vivo? Vien da sorridere amaramente. Se per ipotesi di fantasia fossero catturati e processati, si darebbe rilevanza agli imberbi terroristi o ai loro mandanti, alla ragnatela internazionale? Ai fatti nudi e crudi, naturalmente. Ai registi dello stragismo si continuerà a dedicare il colpo del drone, in una guerra asimmetrica, come quella condotta fuori dal diritto, come quella condotta dalla mafia. L'attenzione mediatica sarebbe alta, sollecitata, come in taluni processi per mafia negli ultimi anni? Per via emotiva sappiamo – ci viene detto – che dopo l'attentato abbiamo dei cadaveri in mezzo alle vittime, e che quei cadaveri sono terroristi. Per non essere catturati, interrogati, depotenziati e, spesso, fatti sparire, si uccidono da sé, se il compito loro affidato si rivela impossibile. Abbiamo talvolta le loro foto, le loro storie, i proclami già preparati. Ma sono sempre i media che ce li confezionano. Sappiamo tutto, per via di notizia. Ma nulla per via di ragione. Non possiamo perciò neppure elaborarlo, il terrore e i suoi protagonisti, attivi e passivi, accumunati dal medesimo esito: la morte. Noi così possiamo solo aver paura. E quindi possiamo soltanto invocare qualcuno, che ne abbia il potere (o conferirglielo apposta), affinché stenda, tutto intorno alla nostra vita, del filo spinato e ci spiani sopra dei fucili rivolti verso l'esterno, e anche all'interno, per confortarci in questa paura incoercibile, mentre diventiamo anomali, sospettabili se rifiutiamo questa "sicurezza" castratrice ed assimilatoria. Sta cambiando la nostra vita, a causa dell'interesse irrefrenabile di chi ritiene che essa – per come ce la siamo costruita negli ultimi secoli di progresso critico, di emancipazione, liberazione ed umanizzazione, sia ora un costo più che un profitto, un rischio più che un affare. Il terrorismo è uno dei tanti catalizzatori di questa corsa nichilistica, nella quale il nichilismo non si separa mai dal potere. Provo a dir meglio: non sta cambiando la vita di tutti gli abitanti del mondo, o non per tutti nella stessa misura. E’ il nostro mondo che si trasforma, che diventa il "nuovo mondo". O meglio ancora: che va a somigliare agli altri che coabitano o coabitavano a distanza di sicurezza. Ai "mondi" dove la paura e la violenza sono già pane quotidiano, a quelli indebitati col nostro fino al collo e attaccati a lame arrugginite pescate nella spazzatura per non affondare. Per quei purgatori sfiniti, crimini infami come l'ennesimo – a Parigi, ieri notte – cambiano poco. Poco, cambierà anche per chi, pur dalle nostre parti privilegiate, ha sempre e comunque vissuto nell’indifferenza, o addirittura nella diffidenza, verso tutto ciò che non gli sta giusto nel cortile di casa. Il razzista, l’accumulatore, l’ottuso – non s’incuriosivano prima per le infinite "anime" della terra, non conoscevano l’entusiasmo per il puro e semplice stare al mondo, al netto del possesso di alcunché, e quindi non sapranno nemmeno cos’è che si va perdendo perdendo sempre più, per i loro canoni, anzi a causa di essi. Questa nuova puntata del dramma, porta questo danno ulteriore: soffoca nell’avvilimento i liberi, e non allevia la servitù di tutti gli altri. Giustizia come requisito della Civiltà: è un criterio molto diverso, anzi attiene ad una cultura in abbandono.

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