domenica 28 luglio 2013

La festa è finita.

Il pampa-Papa ha concluso sulla spiaggia di Copacabana la sua Festa della gioventù, che non avrebbe potuto trovare scenario più adeguato in quella terra luminosa e povera, violenta e vitale. Pare che ci fossero tre milioni di partecipanti, forse discesi dalla favela di Santa Marta che ne ospita altrettanti, abbarbicata su di una collina prospiciente alla celebratissima distesa di sabbia, invece semiartificiale. Se i tre milioni non erano solo favelados, è prevedibile che un milione sia stato borseggiato, anche dai figli di chi mi rapinò sull'avenida di Copacabana mentre rientravo in albergo. Il Brasile è lo spaccato delle cesure sociali, nel quale ad una borghesia rintanata, ma tecnologicamente evoluta, fa riscontro una miriade di diseredati, festosi e allegri finché le forze li sorreggono, che poi declinano rapidamente. In Brasile metà della popolazione ha meno di sedici anni; la maggior parte degli abitanti alla mia età sono già morti. Commozione e speranza, inscindibili in anime fresche, ma le prospettive in quel paese-continente sono solo illusorie, anche se una fede sincrestistica e la commistione biologica, unica al mondo, ne cinetizzano le brevi, brevissime e sorridenti dinamiche. Se l'economia mondiale può abbandonare una minoranza di Paesi poveri, in quanto economicamente non interessanti e privi di importanza, può comportarsi allo stesso modo con le persone povere all'interno dei confini di ogni paese, se e finché il numero dei consumatori potenzialmente interessanti resta abbastanza grande e, se non lo è, finchè sussitono ambiti di mercato nei pressi o ovunque nel mondo, per la produzione e le competenze impiegabili negli scenari economici internazionali. Creando ovunque sacche di esclusione. Osservando la situazione dall'alto e con distacco, come fanno gli economisti ma anche i contabili aziendali, è possibile affermare che nessuno, fra chi commercia i beni, ha realmente bisogno di quel 10% di popolazione statunitense, ad esempio, le cui paghe orarie sono calate del 16%, dal 1979. Una concezione simile, però, non potrebbe essere, né è stata, sostenuta da chi viva all'interno di una economia nazionale, pur se quest'ultima è inserita in un'economia mondiale ; vale a dire, da tutti i governi nazionali e dalla maggioranza degli abitanti dei loro Paesi. In ogni caso, non sarà possibile evitare le conseguenze politiche e sociali degli sconvolgimenti economici mondiali sulle periferie del mondo e su quelle dei singoli Stati. Qualunque sia la natura di questi problemi, un'economia di libero mercato, senza restrizioni né controlli, non può offrire nessuna soluzione ad essi. ( Anch'io, derubato del portafoglio in Brasile, ne comperai un'altro di ottima fattura, da Stern, che, nuovo, è ancora riposto in un cassetto perché privo di portamonete, che in Brasile non si usavano ). Non può, anzi, che peggiorare fenomeni quali la crescita della disoccupazione e della sottoccupazione permanenti, dal momento che la scelta razionale dell'impresa, orientata al profitto, è di ridurre, il più possibile, il numero dei dipendenti, visto che gli esseri umani sono più costosi dei computer; ridurre il più possibile tutte le tasse sulla sicurezza sociale e ogni tassa in generale. E' il mantra di tutte le destre. Non c'è nessuna ragione per ritenere che un'economia mondiale di libero mercato possa risolvere questi problemi. Fino alla metà degli anni '70, il capitalismo nazionale e mondiale non aveva mai operato in condizioni di libero mercato allo stato puro e, qualora tali condizioni fossero state presenti, non ne aveva necessariamente tratto beneficio. Le dinamiche dell'economia mondiale sono contraddette, almeno fino a quando non saranno spazzate via, se i Governi nazionali non saranno più in grado di contenerne le influenze, dalle piccole casseforti dei capitali "strategici" o comunque da poter lasciare inutilizzati in qualche forziere vetusto o ammuffito. Nell'Ottocento - sono circa duecento e vent'anni che il capitalismo è egemone, l'applicazione del modello di libero commercio è coinciso con la depressione economica, della quale è stato la causa principale. Nel ventesimo secolo, i suoi miracoli economici non vennero ottenuti con il laissez-faire, ma contro di esso. La logica del mercato, insomma, che, con entusiastica ignoranza dei cicli storici, si era celebrata dall'inizio degli anni '80 e che aveva creato il demente fenomeno dello yuppismo - oggi agitato e contraddetto nelle piccole aziende di famiglia e di nicchia depositaria - si è già scontrata con una realtà storicamente nota. Tuttavia, due gravi ostacoli si oppongono al ritorno di una concezione realistica dell'economia: l'assenza di una minaccia credibile al sistema capitalistico, privano il capitalismo dello stimolo a riformarsi, per farsi accettare. Al contrario, il declino e la frammentazione della classe operaia e dei suoi movimenti e la riduzione dei poveri, nei Paesi sviluppati, ad una sottoclasse di minoranza, riducono al minimo l'incentivo ad una riforma. Tuttavia, il risorgere di movimenti di ultradestra e l'inattesa rinascita di consenso per gli eredi del Partito comunista, nei Paesi dell'ex socialismo reale, sono segnali ammonitori, tranne per chi è accecato dall'egoismo o rinserrato in fortini vetusti, ma blindati. L'altro ostacolo alla riforma del capitalismo è proprio il processo di mondializzazione , i cui effetti sono accentuati dallo smantellamento dei meccanismi nazionali che servivano a proteggere le vittime di una economia mondiale, dai suoi costi sociali. Sarà questo lo scenario degli anni a venire, anche se questo o quel Ministro dell'economia intravede ( ma non sarà la cataratta? ) luci all'orizzonte. Saranno quelle della vostra Festa, cari ragazzi. Godetevela finché potete in quel contesto lussureggiante. A Cracovia, gli stessi principi gioiosi assumeranno una veste molto più grigia e alcuni di voi saranno già troppo attempati, per parteciparvi.

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