domenica 30 settembre 2012

Vasi comunicanti, reggiani e reggini.

Da tempo, le cosche mafiose hanno intrapreso una marcia di infiltrazione nel tessuto economico e sociale emiliano. In Romagna, ci sono da tempo.In particolare, la zona che gli n'dranghetisti hanno privilegiato per il loro insediamento, anche attraverso massicce emigrazioni, è la provincia di Reggio nell'Emilia, nella quale risiedono, sostanzialmente appartati, migliaia di originari, imparentati, in vari gradi, fra di loro, di Cutro, in provincia di Crotone, che il Procuratore generale presso la Corte d'Appello di Bologna ha detto di "ritenere, per la maggior parte, brave persone". Ci mancava la mafia, in una zona ricca, ma particolare, chiusa com'è dall'egoismo di una oligarchia di ricchi e possidenti o ex possidenti agrari, teatro di sanguinose contese prima e dopo il fascismo e fino ai giorni nostri. Culla di uno dei fondatori delle Brigate rosse, ogni tanto, nei suoi cascinali e nei suoi fossi vengono rinvenuti depositi di armi. A metà degli anni '70, dopo una kermesse di assemblee semipubbliche, un giovane militante della sinistra extra parlamentare fu ucciso, in una faida politica, di cui, però, non si sono mai riusciti a ricostruire le motivazioni, gli scopi e i contenuti. Il Comune di Reggio Emilia, che ha promosso la cultura partecipata in tutte le sue forme ed è riuscito ad accreditarsi in tutto il mondo per la qualità, imitata, delle sue scuole materne, nelle quali la formazione della personalità infantile - da zero a tre anni - viene coltivata con metodi scientifici, non è riuscita o non si è curata di difendersi da un'abnorme invasione di droga e di drogati e di comunità border line, cioè di immigrati da diversi continenti, non tutti per ragioni lavorative. Gli ampi e belli giardini pubblici reggiani sono infestati di siringhe e l'AIDS vi è molto diffuso. La borghesia reddituaria ha diversificato - in parte - nel tempo, i suoi investimenti e vive appartata, egoista e particolaristica. La massoneria esercita sul territorio un peso notevole. Pur protagonista di importanti sperimentazioni, in ambito formativo e culturale, a sera il centro si spopola e la noia invade le vie, lungo le quali è più facile ottenere utili informazioni da qualche extracomunitario di passaggio, che dai rari cittadini barricati in casa. L'informazione, l'analisi su questi fenomeni latita, è inadeguata. Ho trovato un'analisi di Benny Calasanzio, in proposito. La riproduco sul mio blog. Parliamo, ancora una volta, di Reggio nell’Emilia, non di Reggio di Calabria. Perché qualcuno potrebbe fare confusione, qualcuno di quelli che ancora sostiene che la mafia nella Rossa non c’è e che la Prefettura ha un accanimento terapeutico quando emette interdittive antimafia ai danni di povere aziende in odor di mafia colpevoli solo di subappalti a rischio o di avere qualche semplice pregiudicato per mafia tra gli operai. La vicenda della “cena” che tiene banco in questi giorni a Reggio è l’esempio della pretesa impunità e del volto bronzeo di coloro che sono ancora convinti di poter fare tutto alla luce del sole perché si sentono più forti delle istituzioni e dei loro uomini; un incontro trimalchionico che ricorda “La cena dei cretini”, il film in cui un gruppo di ricchi amici organizzava cene in cui i partecipanti portavano uno “stupido” e di lui ridevano sadicamente: il 21 marzo i convitati di pietra erano lo Stato (e le sue interdittive piene di pregiudizi) e la stampa nemica. La cena ad alta densità calabrese è proprio quella del primo giorno della scorsa primavera: nel ristorante “Antichi Sapori” di Pasquale Brescia (originario di Crotone) in una frazione di Reggio Emilia, Villa Gaida, si ritrovano una trentina di persone, tra cui Giuseppe Iaquinta, papà dell’ex attaccante di Juventus e Nazionale, Antonio Muto e Alfonso Paolini, tutti originari di Cutro. Con loro ci sono anche due uomini del Pdl: il consigliere provinciale Giuseppe Pagliani e il suo omologo comunale Rocco Gualtieri: due esponenti locali di punta del Titanic costruito da Berlusconi e al varo definito “inaffondabile”. Tra di loro però erano presenti alcuni eterei individui con banali precedenti per associazione a delinquere di stampo mafioso. Ecco i nomi: Alfonso Diletto, Nicolino e Gianluigi Sarcone, Giuseppe Sarcone Grande, tutti ritenuti dagli investigatori vicini al clan mafioso Grande Aracri. Poi c’era anche Gianni Floro Vito, fratello di Giuliano Floro Vito, in passato sottoposto ad arresti domiciliari in provincia di Reggio Emilia e sorvegliato speciale per fatti riconducibili all’associazione per delinquere finalizzata all’usura, già oggetto di segnalazioni all’Autorità giudiziaria per associazione per delinquere di tipo mafioso. Infine era dei “loro” anche Michele Colacino, imprenditor raggiunto da interdittive antimafia. Ma cosa ci facevano due politici del Pdl insieme ad alcuni sospetti mafiosi? La cena, stando agli astanti, era stata organizzata per discutere soprattutto dell’“attacco” della stampa locale e nazionale alla libera imprenditoria reggio-emiliana e delle interdittive prefettizie che marchiavano a fuoco le imprese. Ingiustamente, of course. Informata dalle forze dell’ordine dell’allegro convivium, la Prefettura di Reggio Emilia emette nei confronti di Brescia, Iaquinta ed altri personaggi un divieto di detenzione di armi ed esplosivi: in particolare Iaquinta era titolare del porto d’armi per difesa personale e poteva per questo girare armato. Per il Palazzo del Governo la loro vicinanza, anche saltuaria, a personaggi vicini alla ‘ndrangheta, non consentiva di ritenerli “affidabili” e dunque di lasciarli “armati”; così li obbliga entro 30 giorni dalla notifica a consegnare tutto il materiale esplodente. Iaquinta e Brescia fanno ricorso. E proprio nei ricorsi emerge come l’organizzatore dell’incontro sia stato il Pdl Pagliani. Nonostante si dica che l’incontro era stato promosso pubblicamente, fosse aperto a tutti e “auto-convocato”, alcuni commensali si definiscono “invitati”; qualcuno dovrà averli, appunto, “invitati”. Compresi coloro che sono gravati da precedenti di polizia. O erano degli imbucati? Questo ancora non è emerso. Il ricorso dell’avvocato del papà del bomber Iaquinta è un trattato di sociologia antropologica: “Non si deve incorrere nell’errore di gravare in sé d’una stigmate sociale e di pericolosità tutt’una area geografica del suolo nazionale per il sol fatto che un individuo abbia la ventura di nascere, crescere e vivere entro di essa, e che entro di essa vengano ad incidere capillarmente fenomeni connessi ad un tessuto sociale venutosi strutturando secondo determinate modalità d’interazione”. In sostanza errore ci fu, di tipo razzista per la precisione. Il Tar però boccia il ricorso e dà ragione alla Prefettura: “Il provvedimento impugnato si fonda su valutazioni ampiamente discrezionali non sindacabili in questa sede se non in presenza di elementi suscettibili di palesare un distorto distorto esercizio del potere esercitato”. E quegli elementi, ahiloro, non ci sono.

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