martedì 10 settembre 2013

Le composizioni delle coscienze.

Il velo della confusione fa da schermo ai fatti e, contro ogni evidenza, si alimentano miti celebrativi a paragone di nemici arretrati, quindi malvagi e, infine, insignificanti. Gli Italiani in Etiopia si comportarono come belve e, nonostante questo, si auto accreditarono come brava gente, un'ipocrisia che si riverbera ancora nelle missioni umanitarie. Indro Montanelli, ottimo cronista di tutte le situazioni nelle quali non era diretta parte in causa, rimosse fino alla morte la testimonianza di quegli eventi dei quali era stato testimone e protagonista, ammettendo solo, anzi vantandosi, delle poligamiche spose bambine di cui aveva usufruito, non trovando di meglio che sostenere che codeste adempivano ad un ruolo sociale sedimentato nella loro società e che anzi erano molto orgogliose di essere spose e sue spose e che, comunque, il Generale Graziani disponeva di un harem. Non so se delle bambine avessero o potessero permettersi di queste civetterie, ho visto invece personalmente, nelle sale di un hotel per rotaryani, dove anch'io soggiornavo, sulla petite cote senegalese, le mogli, in numero di tre per alcuni di loro, pavoneggiarsi sorridenti, insieme, in un caleidoscopio di costumi variopinti e spaziosi, data la mole di uomini e donne, in una brulicante e sottilmente graveolente adunata di affiliati africani alla sovranazionale accolita della rotella dentata. Non c'erano - ricordo - bianchi in quel consesso. I rotaryani hanno facoltà di partecipare a riunioni associative in ogni parte del mondo. Sta di fatto che nell'Etiopia della guerra coloniale italiana si viveva senza alcuna fede, morale, rigore. Metà della popolazione si proponeva per pulire scarpe e stivali, l'altra metà, femminile, si offriva. In Etiopia, a sud di Macallé, a settecento chilometri a nord di Addis Abeba, c'è un massiccio montuoso chiamato Amba ( rilievo )Aradam , dove, dal 10 al 19 Febbraio del 1936, le truppe degli invasori italiani, comandate dal Maresciallo Pietro Badoglio, combatterono contro gli Etiopi, guidati dal Ras Mulughete Yeggazu. L'aviazione italiana, l'unica in azione, utilizzò su larga scala il gas iprite, irrorandolo a bassa quota, con la precisa finalità di terrorizzare sia i soldati, sia la popolazione civile e piegarne ogni resistenza, mentre le truppe italiane lanciavano, con l'artiglieria, proiettili al fosgene e arsina. Già dal 23 dicembre del 1935, l'esercito italiano usava le armi chimiche, contravvenendo al protocollo di Ginevra del 17 Giugno 1925, che pure aveva sottoscritto. Nel Luglio del 1936, il deposto Imperatore Hailé Selassié aveva denunciato all'Assemblea della Società delle Nazioni: " mai, finora, vi era stato l'esempio di un Governo che procedesse allo sterminio di un popolo, usando mezzi barbari e violando le più solenni promesse fatte a tutti i popoli della terra, che non si debba usare contro esseri umani la terribile arma dei gas venefici". Tre anni dopo, tra il 9 e l'11 Aprile del 1939, una carovana di partigiani, guidata dal Capo del Movimento di liberazione etiope, Abedé Aregal, si rifugiò in una grotta, dopo essere stata individuata dall'aviazione italiana. Con loro, molti parenti che garantivano le cure ausiliarie e, fra di essi, molte donne con i loro bambini. Non mancavano i vecchi che non si era voluto abbandonare. Un'autentica comunità familiare, sociale e combattente. Il plotone chimico della Divisione Granatieri di Savoia l'attaccò usando bombe e gas d'arsina e iprite. La maggior parte dei rifugiati nella grotta morì per questo. Ottocento superstiti, arresisi, furono subito fucilati. Coloro che, nell'interno della grotta, continuarono la resistenza, furono uccisi con i lanciafiamme. Le estese ramificazioni della grotta resero impossibile esplorarla completamente. Il Comando militare italiano ordinò, quindi, di ostruirne l'imboccatura. Non difforme, per efferatezza, fu l'occupazione della Libia. Sulle Dolomiti, il monte Civetta presenta, all'apice, una lacuna, una slabbratura profonda che divide innaturalmente le frastagliate vette. Rappresenta l'esito di una pluriennale guerra di posizione fra le truppe austriache, acquartierate sul pendio, lungo il quale avevano scavato un fortilizio e gli assaltatori italiani che, provenendo dal basso, erano sempre respinti, con ingenti e incessanti perdite. Fu un capitano italiano a porre termine all'assedio, facendo minare la base del fortilizio roccioso e facendolo franare addosso agli Austriaci, i cui resti sono ancora là sotto. In quelle grotte, negli antri oscuri della nostra coscienza nazionale, giacciono, sepolte, le nostre infingitorie mitologie.

Nessun commento:

Posta un commento

Sono graditi i tuoi commenti