mercoledì 26 febbraio 2014

La differenza inconfondibile.

Fra i tanti paradossi della rappresentazione quotidiana di un canovaccio senza soggetti, c'è anche quello di dover corrispondere con sincerità alle facili provocazioni che vengono dal fronte degli sfruttatori riguardo a chi ha smesso di tutelare il lavoro, per porsi in una prospettiva, equivoca e comunque di lungo termine: il sindacato. Pur di sottoscrivere un accordo qualunque, i sindacati hanno, negli ultimi decenni, assecondato ogni processo di ristrutturazione padronale, anche del salario, senza ottenerne ovviamente nulla in cambio, se non la sussistenza sul piano politico, riferimento principale di questi enti non riconosciuti e bussola di ogni loro (dis)orientamento. Voler subordinare la prassi sindacale a precisi riferimenti politici ha un senso ( opinabile ) quando la politica ha il vento in poppa e le classi lavoratrici rappresentate possono inscrivere le loro strategie rivendicative e far valere il peso del numero e della riserva di voti. Ma quando la politica è depotenziata e non più in grado di guidare la rotta delle classi lavoratrici, per una più equa ripartizione del reddito, ecco che i sindacati si trovano paralizzati, impotenti ed isteriliti e cercano un'improbabile appeasement sulle strategie, per forza di cose, speculative delle aziende. Così facendo, negli ultimi anni, si sono ritrovati privi di interlocutori e carenti di rappresentanza, tanto che adesso vagheggiano la creazione di macro aree di rappresentanza che coagulino più province, in rapporto alla rarefazione delle maestranze impiegate ed anche dei marchi di fabbbrica che hanno ammainato i loro gonfaloni. Come non vedere e, quindi, come negare che il mondo sindacale sta mutando in un patronato sociale, dopo essere diventato da tempo una ridda di servizi fiscalmente facilitati, nel quale la normale rappresentanza delle classi subordinate è stata sostituita dall'assistenza previdenziale e dalla contrattualistica – in supplenza, come per molte altre cose, pagate secondo tariffari precisi, in grado di intercettare onnicomprensivamente tutte le involuzioni, riduzioni e creazioni di rapporti di lavoro, che i contratti atipici e la precarietà d'impiego hanno creato. Il mantenimento di istituti, sempre meno onerosi, di smaltimento di personale attraverso la sua proletarizzazione, è stato sbandierato come un successo, quanto meno di tenuta dei sindacati stessi, nonostante, ogni volta, sia stato ricontrattato a cifre da neoproletariato di suburbio, che costituiscono anche la base retributiva riservata alle nuove assunzioni. La stessa competitività a metà strada fra la soppravvivenza e la stretta giugulatoria verso le imprese finanziariamente in crisi ( condizione alla quale non sempre corrisponde la debolezza tecnica o tecnologica, priva di valorizzazione, se sussistente, a seguito della finanziarizzazione dell'economia ), provoca ristrutturazioni e dispersioni di mano d'opera, prima che le imprese, così depauperate, siano assimilabili da quelle monetariamente più forti, in un cupio dissolvi di mancanza di contenuti. D'altra parte, da tempo, le imprese vanno in piazza, mentre i sindacati vi latitano. Come se non bastasse, tutto questo prospetta un trattamento gravemente ridimensionato del regime pensionistico, tanto da rendere assolutamente sconsigliabile l'abbandono precoce del lavoro, che le aziende caldeggiano, come attestato dalla sua crisi accertata dei conti dell'I.N.P.S., che ha perso la possibilità di far fronte agli oneri previsti, se non in termini pesantemente ridotti. In questo sporco gioco, ammantato di ideali depotenziati, ciascuno persegue il proprio interesse e, quindi, non bisogna abdicare al proprio, rendendosi sordi alle parabole e attenti all'empiricità dei dati. Se gli asset migliori saranno salvaguardati ( non diamolo per scontato prima di constatarlo ), si cercherà di rendere superflue molte figure attualmente inserite nelle aziende, veicolandone l'impiego verso i segmenti da abbandonare, per offrire infine a queste figure depresse e private del loro lavoro sostanziale, delle tabelle di mantenimento da discount alimentare, mentre in ogni ambito della vita civile(?) la ragionieristica presiede alla conservazione di ogni ambito di rendita, accantonata con spirito da formica, ma anche con ogni sotterfugio. Anche su questo, tranne che nelle dichiarazioni, i sindacati latitano. Sono quindi complici e responsabili di subordinata correità. Ma nonostante il fatto che, in questa fase storica, la loro inattendibilità sia evidente, bisogna considerare che l'azione di ridimensionamento e regressione sociale non viene portata direttamente avanti dalle organizzazioni del tribunato della plebe, ma dalla solita controparte datoriale che, oggi, non trova nessuno a contrastarla. Il sindacato, sempre, per sua natura, riformista, non è un'entità metastorica e la constatazione che oggi non valga la pena di frequentarlo, non toglie che, in questo tipo di società, cioè da circa tremila anni, non è stato escogitato nessun altro nucleo di rappresentanza sociale per le classi subalterne, la cui subalternità non si riduce al panem et circenses ( casomai più circenses che pane ), con cui, molte volte, soprattutto in ambienti piccolo- borghesi, lo si confonde, fornendogli pretesti, con obiezioni leggere, per il suo sostanziale, attuale disimpegno. Ma, pur essendo facile e scontato, prendersela con la parte debole e inefficace della forbice che, volenti o nolenti, coincide con la propria, non bisogna perdere di vista il competitor naturale del lavoratore, al quale ci si può solo prostituire, in forme modulate, ottenendone, in rari casi, mortificanti e limitate, in tutti i sensi, gratificazioni, dato che il suo scopo è comunque di prendere e di dare, al massimo, ciò che non lo coinvolge, nè gli interessa.

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