domenica 26 maggio 2013

Sotto la pioggia.

Il funerale di don Andrea Gallo è stato una partecipata e varia, ecumenica ma identitaria, rappresentanza di gente, la sua, inconciliabile con quelle assenti. Don Gallo viveva per gli altri, ma non per tutti gli altri. Viveva per quelli come lui che, appena affacciatisi alla società e provenienti da esperienze e ambienti non afferenti al potere, ne venivano espulsi e, attraverso la marginalizzazione - si presumeva - resi inoffensivi. Ma Andrea Gallo, prima di prendere i voti il partigiano l'aveva fatto sul serio e con le armi in pugno. Poi era stato preso da una fede nella "verità" evangelica e si era dedicato all'ascolto e all'accoglienza delle meno estetizzanti personalità del "creato", convincendo molti di loro che "Dio" li amasse. Probabilmente era vero, dato che Dio, come questo tipo d'amore, non esiste. Don Gallo era incontrovertibilmente un cristiano, perché ascoltava tutti e non giudicava chi soffriva. Lo ha ricordato la sua segretaria a chi - giustamente - contestava il Cardinale di Genova che, sospirando balle, aveva voluto mettere la cotta sulla non rimpianta dipartita, al posto del suo cappellaccio. Paragonando il Vescovo ai transessuali, alle prostitute e ai drogati, la fedele assistente del Gallo ci ha ricordato che dobbiamo compassione a tutti, non solo a chi soffre, ma anche agli stronzi. Proprio perchè era un commiato da un'esperienza pastorale ed umana, che forse continuerà come quella di don Olinto Marella a Bologna, ma, senza il suo profeta e il suo vendicatore, si ridurrà ad un'opera diocesana di assistenza, sia pur di dimensioni imponenti. Imponenti perché Genova, terzo polo del triangolo industriale e, a suo tempo, primo porto commerciale del meditterraneo, è stata una città aspra, sporca, fiera e di grande consapevolezza sociale. Una consapevolezza che non risiedeva nella borghesia armatoriale ( i religiosissimi patriarchi Costa, tanto cari al cardinale Siri ) e cascami, ma nei portuali, nei giovani e originali prodotti dalle topaie dei caruggi, da un grande senso dell'impegno che la Resistenza, qualsiasi resistenza, richiede, in termini di lotta e sacrificio, anche della vita. I caruggi di Genova non sono diventati, come la speculazione del ritrovo e della ristorazione avrebbe voluto, dei quartierini d'élite, come le case di ringhiera a Milano. L'attacco è durato poco e si è fermato alle adiacenze delle vie principali della città estesa e schiacciata fra il mare e le montagne. I caruggi sono stati, durante la Resistenza, il deposito logistico, il punto d'avvistamento, il terminale delle notizie, l'avamposto dell'agguato, il rifugio nel quale rientrare. Lo sono tutt'ora. Vi vivono comunità di ragazzi, ancora tanti, riprodotti dai loro proletari genitori. Gestiscono per loro e per gli avventori che sappiano dimostrarsi rispettosi, cantine e trattorie. dove si vive un clima disteso ma vigile e si gode di un'ottima cucina a prezzi da angiporto. Con le navi, la tossicodipendenza vi è diffusissima e, a rinforzarla, da decenni è intervenuta la deirizzazione dell'economia cittadina. Prima Genova era vissuta delle sue attività, dopo, col declinare della cantieristica e della siderurgia, tutte le sue aziende furono assunte dall'IRI che poi, progressivamente, le ha abbandonate. La parte ricca e barocca della popolazione non è stata minimamente coinvolta in tutto questo e continua a vivere nei palazzi ridondanti del centro e nelle più amene località circonvicine. Il 70% della popolazione, a digradare, si è stabilizzato in una condizione di povertà, in un regresso dall'acquisita condizione borghese, in un ritorno nei ranghi del proletariato. Genova, città di mare, era e, a maggior ragione, è una città di puttane: puttane povere, sedute sui marciapiedi delle ridotte dove lavorano, sui gradini delle casupole, corrosi. Donne talvolta vecchie, con i ventri prominenti; talvolta fin troppo giovani. La Genova di De André, ben viva e visibile. Oggi, ai funerali di don Gallo, c'era anche l'ultima compagna dello chansonnier, il più noto eppur il più aristocratico di una batteria di poeti e musici, che la città industriale e mercantile talvolta evoca anziché escludere. Anche don Gallo è stato fino alla fine un poeta della sua città, delle sue concrete genti.Ha saputo essere popolo in mezzo al popolo, così com'era. Vladimir Luxuria, che ha ricevuto una comunione - ritengo - senza confessione, come si usa quando si è stati in comunione, rispettati in una comunità di persone e al quale l'algido e liberty Arcivescovo belin l'ha amministrata perché fuori dal suo contesto, perché ha inteso il senso ostinatamente contrario al suo della fratellanza della vasta comunità non ancora diocesana, o perché non ci crede neanche lui, ha ricordato che don Gallo l'aveva fatta sentire accolta e amata da Dio, insieme a tutti i transgender. Peccato che Dio non esista, se non in questi rarissimi e sparsi, dolenti e franchi approdi. Come i primi cristiani catacombali del suburbio romano, ricavavano dalla fratellanza, la fede che si sarebbe persa nell'istituzionalizzazione religiosa, la comunità di don Gallo ha saputo ricrearne i presupposti, insieme alla città, probabilmente simile alla Roma nel pieno trauma della sua decadenza, partendo dalla parte destructa, ridandole il senso della propria dignità. Lascia una grande opera a cui mancherà la voce.

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