sabato 11 maggio 2013

Modelli, cittadinanze e riconoscimenti.

Ho l'impressione che il modello vigente nelle relazioni sociali non sia altro che uno stampinaggio sulla sabbia destinato a essere cancellato dall'alta marea e riprodotto il giorno dopo, da un artista copione e a corto di risorse. Senza più riconoscere facoltà al popolo diffuso, gli applica una sorta di regolamento condominiale, nel quale la volontà individuale, se non si adatta a una prevalente vulgata comune, mantiene un potere puramente espressivo. Se non ci si uniforma o, semplicemente, si coltivano altri orizzonti rispetto a senecenze oziose o a preoccupazioni successorie, i minoritari rischiano di essere relegati al rango di nudi proprietari e vengono costretti a una contribuzione millesimata, alle spese e agli altrui investimenti, a maggioranza deliberati. La trame, il governo e la politica vi sono definiti fuori del consesso assembleare. Come in un racconto di Dino Buzzati, l'ingenuo renitente che non può sottrarsi al contributo, diviene, non pagando, debitore della maggioranza. La maggioranza, quindi, può, mentre persegue i suoi interessi, tramare per mettere in difficoltà e poi espropriare il pur legittimo, ma delegittimato perchè parziale, proprietario. E' una pretesa a priori ed a prescindere, in un contesto nel quale, invece, le condizioni personali e familiari possono subire brusche variazioni e anche tracolli e relegare, di periferia in periferia, chi non può, non vuole ( colpa imperdonabile, materialmente sanzionabile )o non sa amministrarsi secondo una volontà prevalente, speculativa ed aliena che vacuamente si trascina fin sul confine - condiviso? No, condominiale. - dell'esistenza. Di noi non resterà nulla, tranne il feticcio della proprietà. Si sposti, si scansi chi non si barrica e preferisce vivere plasticamente; faccia posto, pure ai frutti privilegiati della riottosità intrinseca anche nelle famiglie favorite, strutturate e previdenti. Il medico congolese, naturalizzato italiano, che fa il Ministro dell'integrazione nel governo del "nipote", di integrarsi non aveva personalmente bisogno. Ha accettato di ridiventare un'anomalia civile e culturale nella pur promiscua compagine. La sua proposta adempie ad un criterio univoco ormai del diritto internazionale, largamente prevalente fin dai tempi in cui lo studiavo io: è cittadino chi nasce nel territorio dello Stato. Lo ius sanguinis era già ritenuto allora un residuo agro-patriarcale. L'Italia è, localmente, una nazione agro-patriarcale. Lo è anche aziendalmente, mi verrebbe da dire. Oltretutto, come in Grecia, pozzanghere microbiche schizzano una miscela indistinta di egoismo e di ignoranza di chi vagheggia di potersi conservare benefici sociali in via di dissoluzione a prescindere dai potenziali beneficiari e come sempre avviene, preferendo non ammetterlo, si nasconde dietro una identità cultural-popolare d'accatto e fino ad oggi non rivendicata. Interstizi infetti nelle mille angustie del nostro territorio. Il riconoscimento giuridico delle famiglie omosessuali, che è il dichiarato proposito del Ministro canoista e teutonico, pur graduale, viene rimandato alle calende greche. I due Ministeri senza portafoglio, propugnatori di ipotesi ideali e di incerto trascinamento di suffragi, vengono relegati fin dalla culla, nel limbo delle cose inutili ma coreografiche. La prolifica immigrazione inquieta uno Stato non abituato a gestire fenomeni di marcata e diversificata identità culturale. Lo Stato concordatario non sa come regolarsi nei confronti della più coesa comunità ospite, quella islamica, con la quale non ha ancora stabilito rapporti istituzionali, resi per altro difficili dalla varietà e autonomia delle diverse comunità, pur richiamabili alla koiné dalla sottomissione alla fede in Allah. E' inquieta la Chiesa cattolica che non aveva mai avuto concorrenti in casa e che teme anche la presenza, ancora molto limitata, di chiese e di sette protestanti, cristiano-animistiche provenienti dall'Africa, in una minuta parcellizzazione di confessioni. Nei quartieri periferici e operai delle città, nei paesi della cintura, gli immigrati condividono la marginalità con gli altri strumenti e potenziali scarti sociali, ma, a differenza di questi ultimi, hanno una precisa - almeno soggettivamente - identità e un orgoglio rivendicativo della medesima se la vedono ignorata e la sentono in pericolo. Ma i problemi non si eludono; non serve. Lo ius soli deve affermarsi, anche se trasformerà radicalmente l'Italia e anche se questo avverrà al livello più basso della popolazione. Se il mondo - per ora - non ha più confini, non se ne possomo erigere per gli uomini e le donne che lavorano, che modificheranno i caratteri della nazione che contribuiranno prevalentemente a popolare, nel rispetto comune e dovuto delle sue leggi, alle quali il Ministro congolese potrà dare un significativo contributo. Fino ad ora la nostra società è stata caratterizzata da ghettizzazioni ed esclusioni di censo e di educazione, ma non sono mancate le relegazioni culturali e religiose nei confronti di quei quattro gatti di Ebrei nostri connazionali. Ma anche gli ostracismi ambientali e censitari hanno avuto i connotati del razzismo, non espresso ma esclusivo. Ora, in assenza di una opposizione di classe in grado di esprimersi politicamente, si prefigura un'opposizione culturale o, almeno, un'alterità. Non è assente la consapevolezza di una realtà profondamente diversa nella prassi, rispetto alla intenzione legislativa, nei preannunciati e chissà se realizzati provvedimenti: porre attenzione e proporsi inclusione rispetto ai dati formali delle questioni, non nascondendosi che i dati reali saranno forieri di una nuova e violenta segregazione e criminalizzazione, ma, pur limitandosi solo a questo disorganico aspetto, sapere che innescheranno una dialettica originale e un cambio della sua direzione. Provvedranno a produrla quegli stessi fenomeni che si proponevano di negarla, superarla, ostacolarla e contenerla. Almeno così io spero, perchè, altrimenti, avremmo una ennesima riedizione dell'autoritarismo. E' così importante venire nazionalizzati in un Paese nel quale il lavoro è diventato una paccottiglia di compiti brevi e a chiamata? Sì, per non ridiventare stranieri quando non si è più richiesti. Val la pena di chiedere la cittadinanza di un paese nel quali violenti movimenti xenofobi sembrano rappresentare il sentimento di quote significative di popolazione indigena, alle cui emozioni ostili i megafoni razzisti fanno eco? Ne sono meno sicuro. Un razzismo che riguarda non solo gli stranieri ma, nuovamente, tutti coloro che offrono le loro braccia. Se è così, vale la pena di insistere nella ricerca di valori comuni. Ecco che gli abitanti della più stracciona regione d'Italia ghettizzano in capannoni dismessi i braccianti agricoli, li seccano nei campi durante le interminabili giornate assolate, li provocano, li picchiano e, infine, gli sparano perché rimangano incontestati i confini del ghetto. Un contegno, più che una condizione che due anni fa fu rifiutato. Un rifiuto morale. Gli immigrati non potevano sapere che i braccianti abbrutiti erano sempre stati trattati e riguardati così, perché non presumessero di poter condividere una comune umanità con i pigri e assenteisti proprietari e neppure con quella massa grigia e a sua volta povera che vive al riparo di quattro mura. Il disegno di legge della Kyenge rischia infatti di equiparare, sia pure solo sul piano formale, due condizioni parimenti miserrime, ma di alterare il costume feudale che fonda il sistema, del quale alcuni suoi paradossali protagonisti si sentono parte e che tendono a difendere. La presunzione che, di per sé, il lavoro unifichi, dia cittadinanza, consenta soprattutto di solidarizzare, rende apprensivi e conniventi anche gli altri disgraziati. E' uno dei nodi non sciolti e più oscuri della simbologia e della psiche umane. Non mi nascondo che, in ottica politica, stante il declino sociale, questo e l'altro provvedimento, per altri versi emblematico, del riconoscimento delle coppie omosessuali, ha lo scopo di suggerire, illudere circa il possesso, la potestà e il riconoscimento almeno di se stessi. Che è appunto pura tecnica, mera illusione della quale la politica serva si limita a rendersi interprete. Ma nonostante che l'intenzione si eserciti sul piano simbolico e rappresentativo le si contrappone una resistenza dilatoria.

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