mercoledì 29 febbraio 2012

Picari.

L'esistenza di Charles Bukowskj è stata vissuta e, contemporaneamente, narrata. L'autore polo-statunitense, ha accompagnato la sua miseria esistenziale con una diaristica semplice e puntuale ed ha contraddetto l'adagio per il quale la vita la si vive o la si narra. Nella sua erraticità, pur circoscritta, non ha mai ammainato il vessillo della libertà, quale poteva essere e pagata con dure privazioni, ma mai lambita dal martirologio dei frustrati, perché corredata da soddisfazioni occasionali e non convenzionali, eppur continue, Bukowskj ha scritto l'epopea del precariato ante litteram ( almeno per noi ). L'ha scritta a partire dagli anni '40, quando in Europa le dittaure imperialistico-territoriali cominciavano a consumare la loro disfatta, alla quale, almeno in Italia, sarebbe seguito un cinquantennio di economia assistita, di pensionamenti precoci, di invalidità surrettizie, di insoddisfazioni compensate dal poco impegno. La classe operaia ha fatto, non senza ambiguità, eccezione, ma a contraddistinguerla non è stato il suo anarchico agire, la sua vocazione a vivere la vita fuori dagli schemi borghesi, bensì l'inadeguatezza, culturale e reddituale a uniformarsi a quei costumi che, soprattutto, nella loro versione più pigra sono intervenuti a guastare la sua sana vitalità. Il vitalismo proletario costringeva quelle famiglie a competere con le bollette da pagare, un'assistenza minima ai figli e il coniuge beone e violento o la moglie perfida e provocatrice. Quando poi non interveniva la cassa integrazione a sedare depressivamente il menage - per un attimo - prima di riesplodere in accuse e contumelie, originate solo dal desiderio di gratificazione al bar o alla partita dei mariti e del cinema, parrucchiere e bei ragazzi delle signore. Da allora, ci sono voluti sessant'anni prima che la nostra percezione della realtà coincidesse con quella descritta dal picaro anglo-polacco, negli USA, in omaggio alla libertà formale di lavorare o meno e di sostare in un impiego per il tempo che lo si sopporta. Da noi, ancor oggi, questa sia pur oggettiva condizione è osteggiata, più in termini di rifiuto psicologico che di fattive possibilità di ritorno al passato. Bukowskj affronta la vita con disincanto empirico: dalla sua ha , a differenza di molti, la cultura, che produrrà un'opera sul mondo marginale, volutamente marginale, nel quale e dal quale si possono trarre le stesse soddisfazioni che conferisce il successo ed il potere, adeguandole esteticamente, e, nel suo caso, la fama postuma. Si direbbe che, fra i due estremi: i vertici del potere e del denaro, ritenuti irraggiungibili, piuttosto che acconciarsi ad una più o meno aurea mediocritas, abbia optato per la base infima, quel letame da cui nascono i fiori e l'abbia vissuta senza implicazioni ideologiche e prospettiche, secondo i modelli delle rivendicazioni classiste o delle arrampicate sociali attraverso il successo professionale, proprio, ancor oggi, delle plebi ( casomai laureate ) europee. Una vera divaricazione culturale, che non si pone il problema di esserlo, che esclude l'assalto al cielo, così come la rassegnazione predicata, per esempio, dalla Chiesa per antonomasia e da altre, ma non tutte, confessioni cristiane e non. Una divaricazione culturale che esula dalla politica; che non si preclude però nessuna gioia terrena e che non indulge alla retorica del baraccato e della santa sopportazione familiare. I suoi racconti, tematici circa i periodi di lavoro - il più lungo alle Poste - e circa le sue passioni: la birra e i liquori, le donne e le corse equine, non presumono di ammaestrare, anzi rifuggono da ogni sorta di ammaestramento, spesso cautelativo per la mancanza del coraggio di vivere.

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