domenica 29 maggio 2016

Il teatro del mondo.

L'autarca turco, Erdogan, ha tolto l'immunità ai parlamentari Curdi che gli hanno impedito, finora, l'assunzione presidenzialista ed esclusiva del potere. I deputati, messi nelle mani dei giudici e dei secondini, sono cinquanta su cinquantanove che costituiscono il gruppo parlamentare curdo. Il loro leader assomma settantacinque procedimenti giudiziari, da solo. I Curdi lottano per un loro Stato e, per questo, combattono, da generazioni, i nemici occasionali delle potenze occidentali. Pare che non abbiano ancora capito che, per queste ultime, tutto si gioca sull'utilità temporanea di ogni entità e contrabbandato principio. Per questo sono sempre in lotta, anche se gli scopi, per loro, sono solo miraggi. Se questo è il destino, certamente qualcuno che specula su di esso, anche all'interno dei loro ranghi, esiste, ma, il solo fatto di esistere, li pone in contrapposizione sacrificale con tuti i poteri, costituiti o di fatto, entro i quali si agitano. Ora sono, per la prima volta nella loro vicenda umana, l'unica opposizione parlamentare in grado di mettere in crisi la volontà totalitaria di un politico che cerca l'esclusività, perché è corrotto fin nei rametti del suo albero genealogico. Nessuno, fra gli utilizzatori del loro sacrificio muoverà un dito per aiutarli: si invocheranno i diritti politici ed umani genericamente. Al di fuori del loro ruolo strumentale, senza un'entità statale, i Curdi non hanno poste diplomatiche da scambiare. Ieri sera, a San Siro in Milano, è andata in scena una contesa secca fra la ricchezza e la sua miglior servitù gladiatoria e una compagine che - si diceva - avrebbe potuto solo costituire la riserva del Real Madrid. L'Atletico, che ha conosciuto la terza divisione spagnola, il fallimento e una lenta ma sistematica risalita, ha schiacciato i ricchissimi rappresentanti politici e sportivi dell'unità spagnola, per due terzi della gara, protrattasi per due ore ed ha perso perché ha sbagliato due rigori. Se anche avesse vinto, come avrebbe meritato, sarebbe stata solo una parentesi felice in un contesto di subalternità, come nella vita reale. Però il concetto di squadra e di coesione, partecipe e non leaderistica, del suo allenatore, che ha manifestato ieri sera sono stati autentici e ne hanno manifestato il senso, contro la squadra realista che ha giocato sulle punte. E' morto Giorgio Albertazzi, attore e uomo di cultura. Tribuno e fine dicitore, a mio giudizio, più che attore. Celeberrime le sue letture di Dante dalla loggia della Torre degli Asinelli, a Bologna. Messosi alle spalle il fascismo, non rinnegato ( questo gli fa onore, non moralemnte, ma intellettualmente ) per il quale fu condannato a morte, per aver guidato un plotone di esecuzione dei repubblichini di Salò, dei quali fece parte, come dario Fo, che, però, era di leva, con il quale, negli ultimi anni, aveva rivisitato alcuni testi classici. Fu graziato in extremis dal Guardasigilli comunista, nell'immediato dopo guerra. Albertazzi fu classico in senso paludato, quanto Fo lo fu e lo è ancora in senso dialettale, atemporale e popolare; lo fu dal principio alla fine della sua esperienza artistica, intervallata da qualche film erotico-intimista e da tanto palcoscenico, dal quale l'ho ripetutamente ascoltato. Era pedagogico, vagamente urticante, ma preparatissimo sui testi che rappresentava; conosceva bene la storia dei teatri nei quali si esibiva. Offrì, qualche anno fa, la rapida, ma integrale visione della sua ultima compagna, un'aspirante attrice giovanissima, alla quale strappò gli abiti in scena, con le mani adunche del vecchio che, preconizzando la morte, si aggrappa alla vita, con il rancore disperato di compiere un gesto inutile. E' andata in scena, venerdì 27 Maggio, all'Arena del Sole, una rappresentazione a cura della docenza letteraria di alcune scuole tecniche di Bologna, della fine del giudice Falcone. Il merito e la singolarità di questa circostanza è stato che l'invitato e conferenziere è stato l'autista di Falcone, scampato alla morte, ma menomato da ben quindici interventi chirurgici subiti. Ma non menomato nello spirito. E' stato chiaro: il giudice era nervoso, ha voluto guidare personalmente la macchina e, stanco per il viaggio aereo, ha estratto le chiavi dal cruscotto, provocando lo sbandamento e il rallentamento dell'auto, per consegnare alla moglie le chiavi di casa, che erano state accoppiate a quella d'avviamento dell'automobile. L'autista era stato relegato sul sedile posteriore, al quale si era assicurato con le cinture, a differenza dei due coniugi. La macchina della scorta che li precedeva fu investita in pieno dall'esplosione e i due occupanti dei sedili anteriori della sua furono catapultati, in uno spazio ristrettissimo sul tetto e sul vetro, mentre lui, per poco, ma al di fuori dell'epicentro dell'esplosione era rimasto senza coscienza, ma meno grave di Falcone e signora, che morirono subito dopo il ricovero in ospedale. In un certo senso, deve la vita alla sconsideratezza e all'impazienza di Falcone. Ebbene, in tanti anni, tanti, troppi - ha affermato - hanno preso a pretesto una vicenda alla quale e dalla quale erano stati distanti in ogni senso, per parlare, accreditarsi, candidarsi e fare passerella mediatica. Non ha risparmiato neppure la sorella Rita, adombrando una sua separatezza ed indifferenza all'attività del fratello, fino al suo epilogo. Sono diventati protagonisti ed hanno corredato di elementi inventati ed inesatti una vicenda che invece è stata seguita per anni e in prima persona dall'autista che ne ha condiviso, senza morire, la sorte. Non si tratta, ha specificato, di un desiderio di pubblicità, ma della constatazione dell'indifferenza alla realtà delle situazioni e dei fatti retoricamente celebrati, nei quali, al confronto, ha rilevato ogni sorta di improrietà e di inadeguatezza descrittiva ed interpretativa. Ha infine affermato di avere maturato, nel corso della sua vita di autotrasportatore di personalità giudiziarie, un profondo scetticismo sull'affidabilità delle istituzioni, in realtà subdole e amorali e a un giudice che, dopo essersi qualificato come tale, gli ha parlato a lungo all'orecchio, ha opposto una freddezza e un distacco inattaccabili. Dulcis in fundo: senza incertezze e pur semplicemente alla guida delle automobili dei giudici inquirenti, Giulio Andreotti non era solo un protettore politico della mafia siciliana, con la quale aveva stretto un patto strategico, nel terzo dei suoi collegi elettorali, ma era mafioso, "pungiuto" come usa dire, egli stesso. Un'ottima testimonianza, di un uomo di mestiere, agli studenti delle scuole professionali, strumenti, artigiani ed artefici, ma non dirigenti, della società.

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