martedì 24 maggio 2016

Il fascismo depotenziato.

Renzo De Felice, il maggiore storico del fascismo italiano, che ebbe per assistente e successore l'ebreo Paolo Mieli, poi direttore del Corriere della Sera. moriva venticinque anni fa, lasciandoci nella sua documentatissima e noiosa storia del progressivo accumularsi del consenso, abilmente sfruttato da Mussolini, al regime incistato nel costume nazionale prevalente, la sanzione, con rigore scientifico, della realtà non rimossa degli italiani: fascisti dentro. Prima ancora del nostalgico Movimento sociale italiano, a raccoglierne al potere l'erdità fu tutta la parte destra dello schieramento democristiano, che al riparo della divisione in blocchi, ripristinò, all'ombra del campanile, il modello corporativo onnicomprensivo del regime appena rimosso dai bombardamenti degli anglo-americani, dell'invasione della Sicilia e dell'Italia meridionale con i buoni uffici della mafia, preventivamente interpellata a sedimentare gli assetti borbonici statici di una parte del paese che, nonostante tutte le ingentissime sovvenzioni ricevute, non ha mai intrapreso un percorso di crescita e di affrancamento dal feudalesimo, pronuba anche la Chiesa cattolica, schierata su posizioni di estrema destra. L'insurrezione partigiana, prevalentemente oomunista, fu un'espressione del vento del Nord e a quelle latitudini rimase confinata. L'opera enciclopedica di De Felice non è una cavalcata retorica ed epica nell'antifascismo, bensì uno studio minuzioso e documentale dell'evoluzione di un fenomeno di massa, l'unica vera controrivoluzione italiana, come si addice ad un popolo intriso di conformismo gattopardesco da secoli di dominazioni e clientele straniere e confessionali. La stessa borghesia liberale che si organizzò nella Massoneria, non trovò nel sentimento popolare nessun appiglio al suo progetto nazionale e dovette dapprima procedere da sola, con le opportune complictà internazionali e poi ripiegare rovinosamente sulla restaurazione, della quale l'abile sindacalista della campagne romagnole, prima repubblicano e poi socialista fu il protagonista per un ventennio da dittatore e per un trentacinquennio sul proscenio trasformistico ed opportunistico della politica italiana, prima di venir scaricato, dalla sera alla mattina e appeso, con l'ultima amante, per i piedi, all'apice del suo "giorno da leone". Il fenomeno De Felice non ha mai sconfinato dall'alveo accademico ed è stato più recensito, criticato ed emarginato che letto. Neppure io ne ho completato la conoscenza, che spazia anche nel vortice finale di quella esperienza politica, ma ho meditato tutta la parte propedeutica e di consolidamento del regime, prima del folle abbraccio con il nazismo, dopo che Hitler ne aveva imitato e perfezionato il modello e ne avevo tratto la conferma di un'idea già fattasi chiara nel tempo: nell'antropologia culturale dei diversi popoli determinati eventi non sono casuali, ma nascono da caratteristiche profonde e non solo da contingenze storiche che le esaltano e le esacerbano e che ora sono ritornate sullo sfondo del ripetersi di avvenimenti, o meglio di ricadute sociali, molto simili a quelle dei nazionalismi di destra, che, però, erano per l'appunto interne a nazioni autonome ed a Stati sovrani, a differenza della realtà attuale che, per certi versi costituisce la causa del revanscismo senza memoria e, nello stesso tempo un argine alla sua riconcretizzazione. Il sentimento fascista ribolle quindi solo negli animi, nella xenofobia e nel risentimento verso le "macchinazioni" che ci hanno portato a perdere, per quanto attiene alla sua diffusione popolare, i "benefici" di un welfare troppo esteso, a fini, appunto, di consenso, da provocare lo sprofondamento di bilancio che la Germania, di nuovo valutariamente egemone, ci impone di recuperare a tutela della sua stabilità, mentre allora ci coinvolse nell'atto finale di un sistema imperialistico prodottosi dal tentativo militare di capovolgere gli effetti di una crisi, con l'ausilio complice del ceto medio impoverito. Decenni di storia sono trascorsi da allora e la tutela nordamericana non inclina al totalitarismo, ma i prodromi dell'antropologia europea o di buona parte di essa, sono tornati a manifestarsi, per fortuna nell'agitazione impotente.

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