martedì 27 luglio 2010

Londinesi di ritorno

Pietro è rientrato da Londra, in compagnia di un amico che, per tratti somatici, carnagione e colore dei capelli, si confondeva con i vicini pakistani, nel loro quartiere, nei pressi del quale erano domiciliati.
Pietro era, invece, molto britannico nell'aspetto e nella ricca loquela, perfettamente pronunciata e questo contribuiva a confonderlo ulteriormente in quel contesto cosmopolita. Londra, infatti, non è rappresentativa del Regno Unito - per modo di dire, in quanto diviso in nazionalitù e stati dotati di un'ampia autonomia, sul modello feudale delle antiche contee, "unificate" sotto l'egida monarchica -. Una monarchia le cui intemperanze pubbliche fanno sembrare un zuzzurellone anche Berlusconi ed all'interno della cui corte sarebbe maturato l'omicidio mascherato di lady Diana, rea di essere incinta di un medico pakistano -Dody Aal Fayat era una realzione di copertura. Lui, da parte sua, sperava di conseguire la cittadinanza britannica.
Shakespeareanamente, dagli intrighi di corte per un potere reale, alla dinastica tutela dal goossip e da un fratello o sorella musulmana.
In questo crogiolo, Pietro ha intuito che la città offre molte opportunità, sotto la sua patina conformistica e l'ovvietà panoramica che subentra dopo appena una settimana di soggiorno. Ciò non ostante, il meticciato sociale, coniugato con il fervore civile e lavorativo, che non conoscono in questo periodo, rallentamenti da ferie, crea una serie cangiante e insidiosa di opportunità mutevoli.
Ha abitato presso una famiglia anglo-iraniana, composta dal padre, inglese e proprietario terriero e dalla madre, iraniana e dai loro due figli.
La signora, ogni giorno, variava il menu, proponendo oggi la cucina italiana, domani quella slovacca.
Fra gli ospiti ed i padroni di casa, eccettuate queste occasioni culinarie, vigeva l'apartheid.
Accoglienza e cura, opportunità mercantili che il logos anglosassone offre; netta delimitazione degli ambiti privati. Nessuna invasività.
Pietro, la mattina, usciva, prendeva la metropolitana nei pressi di Wembley stadium e si portava in centro dove venivano tenute le lezioni per gli stranieri.
All'interno della scuola, anche alcune studentesse che indossavano il chador integrale, probabilmente figlie di dignitari di corte quando non principessine. Dubito che le figlie del popolo, coperte o non, studino all'estero la lingua dei colonizzatori petroliferi.
L'abito non fa il monaco, né la monaca, anzi, l'abbigliamento è simbolico del potere che si vuole rappresentare all'esterno. C'è chi lo ostenta, chi lo adotta e chi lo subisce.
Come dicevo all'inizio, nei pressi della sua abitazione si stendeva il grande quartiere dei pakistani, la comunità sulla quale sono stati scritti libri e girati films, per descriverne la conservazione dei costumi patriarcali e le periferiche e marginali ibridazioni. Da questa comunità, pur essendo nati a Londra, uscirono gli attentatori della metropolitana di due anni or sono.
Gli inglesi metropolitani, sulle falsariga del loro diritto consuetudinario, hanno scelto, a differenza degli europei continentali, di far vivere in ogni loro espressione esteriore, le culture ospiti, evidentemente, però, non inglobate e dalle quali si difendono attraverso la privata separatezza, i propri riti, dal thé alle diciassette, ai pub, proseguendo con la minuta strutturazione che la loro società riserva anche ai connazionali della capitale: i clubs, le lobby e il rigoroso rispetto, elargito e preteso, della privacy.
In queso modo, sottolineano la loro diversità dai non inglesi, in un contesto di libertà senza confini evidenti, poco partecipe, spesso noncurante.
Ma è anche da questo che nasce la sensazione della gamma indefinita di opportunità che sono offerte a chi vi abiti, pur nell'ambito della fissità noiosa dei costumi. Etichetta di modernità.

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