sabato 10 luglio 2010

Il sindacato in Italia. Profili diacronici.

Il Sindacato in Italia. Aspetti diacronici.

di Riccardo Gnudi



La veste che il Sindacato assume, agli albori del XXI secolo in Italia, è sempre più marcatamente politica, secondo una evoluzione storica difforme dalle sue origini e nonostante i contenuti delle leggi che ne formulano gli scopi.
Dal punto di vista strettamente giuridico, il Sindacato italiano si manifesta come un potere di fatto, di natura eversiva, ben lungi, quindi, dall'assurgere a soggetto politico, concorrente ad assicurare la governabilità di una società complessamente strutturata.
L'azione collettiva, di cui anche l'attività sindacale costituisce una fondamentale espressione, si esercita attraverso i partiti, per quanto attiene alla rappresentanza politica, ed attraverso le formazioni sociali.
Sia i partiti, sia le associazioni di produttori, nel caso che ci interessa, rappresentano degli interessi di parte. I primi aspirano a realizzare una visione particolare, di indirizzo di quella generale; le associazioni libere fra produttori puntano a tutelare e valorizzare gli interessi collettivi privati, comuni agli aderenti.
Paradigma di questa impostazione è il fenomeno organizzativo che discendette dalla rivoluzione industriale, quando i lavoratori si organizzarono per equilibrare, attraverso la contrattazione collettiva, la disparità fra prestatori d'opera e l'impresa che li organizzava.
Durante il periodo liberale, vigente il sistema elettorale censitario, che esprimeva la rappresentanza esclusiva dei possidenti, il Parlamento legiferava secondo gli esclusivi interessi dei proprietari. L'Ordinamento dello Stato serviva dunque a sancire il predominio di classi numericamente ristrette e qualsiasi forma di lotta sindacale era riguardata come reato. Il Sindacato, l'organizzazione informale dei produttori, aveva allora la natura, di fatto, di un movimento eversivo.
La forma di assimilazione autoritaria che successivamente espresse il regime fascista, fra gli interessi dei lavoratori e quelli degli imprenditori, prese i connotati del corporativismo istituzionale, sistema nel quale, in nome dell'interesse pubblico dell'economia, veniva repressa la libertà di associazione sindacale, accentrata nel sindacato fascista, che aveva il monopolio dell'interesse delle categorie.
Questa configurazione politica e sociale prefigurava gli elementi costitutivi dello Stato totalitario, nel quale precipitò per conseguente dinamica.
Dopo la seconda guerra mondiale, l'Italia democratica e repubblicana, pluralista e basata sulla rappresentatività, prevedette che la funzione di indirizzo politico spettasse ai partiti, in Parlamento, mentre ai sindacati, liberi e plurali, venne demandato un compito prettamente economico, a nome dei lavoratori dipendenti, attraverso la contrattazione collettiva e valendosi dello strumento dello sciopero. Non venne meno la primazia del potere politico su quello economico, come si evince dall'art. 41, 3° comma della Costituzione.
In questo contesto, i sindacati, pur privi di formale responsabilità nel governo dell'economia, dapprima attraverso la mediazione dei partiti, poi direttamente, attraverso la forza di pressione che sono ormai in grado di esercitare, ottengono importanti riconoscimenti dal potere pubblico. Sebbene l'Ordinamento demandi loro la regolamentazione contrattuale delle dinamiche del lavoro, l'evoluzione materiale dell'Ordinamento stesso, li vedrà, nel corso degli anni '90, come un vero e proprio giocatore, capace di influenzare la legislazione stessa.
Questa profonda trasformazione si realizzerà attraverso un lungo e faticoso cammino che troverà il suo punto di maturazione formale e la sua base propulsiva nella legge 300/1970, altrimenti detta Statuto dei lavoratori.
Negli anni '80 entra a far parte del lessico politico e giornalistico la parola “concertazione”.
Nei fatti, costituisce un superamento della funzione dei partiti, frutto della crisi della politica, ancora in atto, con il quale i sindacati entrano a far parte del concerto di potere che presiede al governo dell'economia. I sindacati formalizzano questo passaggio, sottoscrivendo un accordo di codeterminazione, che però già altri chiamano partecipazione, con il Governo.
Il sindacato spontaneo, nato dalla solidarietà fra lavoratori, indotta dall'anarchica vita produttiva degli inizi, la cui azione, nel contesto giuridico dei tempi e nei fatti, aveva il carattere dell'eversione, diventa un potere costituito. Riassume quel ruolo di magistratura minore, ma pur sempre magistratura, che aveva il Tribunato della plebe nella Roma repubblicana.
Il sindacato entra dunque nell'agone politico come socio alla pari. Frequenti sono le osmosi, a fine carriera, tra sindacato e parlamento.
Dicevamo della legge 300, quale pietra miliare di questo cammino.
Lo statuto dei lavoratori, infatti, sancisce il concetto di Organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, delegando a queste ultime la titolarità politica.
Sarà la crisi energetica e l'emergenza inflattiva a dar corpo alle prime forme concordate fra Governo, imprenditori ed organizzazioni sindacali, per consentire un abbozzo di politica dei redditi, che era stata, quindici anni prima, il cavallo di battaglia solitario ed elitario del partito repubblicano di Ugo La Malfa.
Durante lo scompiglio istituzionale e politico degli anni '90, quando lo Stato stesso sembrò sul punto di entrare in crisi, il metodo della concertazione divenne strategico e i vertici sindacali vi si impegnarono intensamente, intravvedendo una storica possibilità di contare.
Al di là della parziale natura vetero corporativa presente nei lemmi dell'art. 41, comma 3°, della Costituzione, fuor del contesto storico del fascismo, si avvertono i sintomi di un neo-corporativismo elastico, che non sempre coglie e con difficoltà cerca di amministrare le esigenze e gli umori della base.
D'ora in avanti, dovremo investigare gli atti politici del Sindacato, unitariamente inteso, anche se differenze emergono spesso, sia in rapporto agli scenari politici, sia in rapporto ai prevalenti interessi economici, categoriali ed ideologici, intesi questi ultimi come le idee prevalenti e le sensibilità specifiche dei propri aderenti, vero elemento costitutivo sostanziale di ogni appartenenza.
Nell'accingerci a questo compito, sappiamo di non poter contare su un organico e comprensivo corpus legislativo e dovremo, gioco forza, proiettare queste stagioni in termini di terreni di confronto, nei quali le diverse rappresentanze sociali, tutte le organizzazioni di interessi, ora si confrontano, ora si scontrano e poi confliggono, ora trattano, dialogano, si accordano. Per poi, dialetticamente, ricominciare.
La forza dialettica delle formazioni sociali è data dalla rappresentatività, ora categoriale, ora complessiva, oppure dal consenso che si riesce a suscitare e che va amministrato nelle forme previste dall' Ordinamento. La forza così espressa, vale a determinare il potere politico di ciascuna formazione sociale.
La Costituzione repubblicana assegna questo compito di confronto e mediazione al Parlamento, alle maggioranze ed opposizioni elette. Invece, in questa fase storica, il confronto propedeutico alla concertazione ed il conflitto, spesso endogeno, si svolgono fuori di qualsiasi regola legale, nelle sedi e nelle forme imposte dalla dialettica politica.
Per via informale, le risorse oggetto del contendere-concertare, si traducono in diritti e, quindi, in principi-valori, che paiono maldestramente fondati giuridicamente. La Corte costituzionale ha assunto il compito di misurare la legittimità ed i limiti di quei contenuti, con la sua giurisprudenza. La Corte perimetra l'ambito del confronto politico e definisce gli strumenti mediante i quali può essere condotto e talvolta combattuto.
In particolare, la Corte, con le sue sentenze, chiarisce e definisce l'autonomia sindacale, limita i tentativi di estensione impropria dell'efficacia soggettiva dei contratti collettivi di lavoro di diritto comune, li preserva da tentativi di ingerenze indebite di carattere legislativo, chiarisce i limiti del diritto di sciopero e vigila sulla compatibilità costituzionale dell'evoluzione concertata dell'Ordinamento. Consente, cioè, di misurare il grado di legittimazione formale della partecipazione del Sindacato al potere politico dello Stato.
Vediamo ora di fissare alcuni momenti di questo sviluppo diacronico della vita sociale italiana.
Partiamo quindi dagli anni '70, nei quali individuiamo le fondamenta di quella che diverrà la concertazione, quale strumento di governo dell'economia.
Tre i momenti topici:
emanazione dello Statuto dei lavoratori, che comporterà il riconoscimento legislativo dell'esistenza di un sistema intersindacale, da rendere egemone rispetto a quanto rappresentato dai sindacati autonomi d'impronta monetarista e categoriale;
il riconoscimento della libertà di sciopero politico, tale da consentire ai sindacati confederali di contrastare e condizionare il potere pubblico, per poi addivenire ad accordi condivisi;
il riconoscimento costituzionale della prevalente competenza sindacale in tema di determinazione delle retribuzioni e del costo del lavoro.
La genesi storica fondativa dello Statuto dei diritti dei lavoratori è da ricercarsi, non tanto nella forza delle grandi confederazioni, la marxista, la social-cattolica e la laica e socialista, bensì in un indebolimento della loro capacità di coesione, indotta da una lunga stagione di conflittualità permanente.
La costante contestazione dei piani di programmazione economica, comunque propri di una cultura dirigistica ed aprioristica, in particolare quello 1966-1970, indussero il potere politico, messo sotto pressione, e le tre principali, per dimensioni, organizzazioni sindacali, ad addivenire ad un accordo, ancora informale, per assicurare al primo la possibilità di impostare una politica dei redditi compatibile con la stabilità degli assetti economici, politici e sociali vigenti ed ai sindacati di recuperare, per questa via istituzionale, la presa sui sommovimenti dell'arcipelago lavorativo.
Di fatto, per coincidente interesse, si prescelsero le organizzazioni di quella che sarà definita “la Triplice”, come più affidabili rispetto alle altre, pur numerose, ma circoscritte in termini di rappresentanza. Il potere pubblico sceglie i suoi interlocutori, facendoli uscire dall'ambito dei poteri di fatto. Le tre Confederazioni storiche, che avevano sottoscritto i primi contratti collettivi del dopo guerra, diventano le interocutrici privilegiate degli imprenditori e del Governo che si pongono lo scopo di calmierare la conflittualità e, sul versante politico, di istituzionalizzarla.
Dopo un travaglio decennale, il nuovo sistema di regole viene edificato con il titolo III dello Statuto dei lavoratori, che riconosce ai sindacati confederali, dotati di un maggior grado di rappresentatività, la responsabilità al maggior grado di legittimazione formale del sistema.
Architrave del sistema è l'art. 19 dello Statuto, che sancisce l'esistenza di un sistema intersindacale egemone e ne sostiene i rappresentanti nell'azione propria a tutti i livelli, compreso quello aziendale. Viene così abbandonato il modello naturale della rappresentanza associativa e volontaria, frutto della volontà di adesione, in favore di una istituzionalizzzione non chiaramente normata. In base a questo criterio, il lavoratore può esercitare la rappresentanza solo nell'ambito delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.
Il maxi contenitore di C.G.I.L., C.I.S.L. e U.I.L. Si presta ad essere riempito secondo le contingenze degli interessi da compensarsi nel mondo della produzione e del capitale, del mondo della politica e del mondo del lavoro, la cui assimmetria vede ridursi gli spazi dialettici.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 54/1974, stabilì che, pur fatta salva la facoltà di esercizio dell'attività sindacale e di costituzione dei sindacati, solo la trimurti sindacale potesse veder sanciti ope legis i diritti di rappresentanza; tutti gli altri avrebbero dovuto conquistarseli con la lotta, avendo per oppositori non solo le naturali controparti datoriali, ma anche le tre grandi organizzazioni storiche.
In coerenza con queste premesse, lo Statuto dei lavoratori, tramite l'art. 28 rafforza la capacità di tutela giuridica dei sindacati “maggiormente rappresentativi”, conferendogli la titolarità dell'azione contro i comportamenti antisindacali, che possono essere messi in atto dagli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali. L'art. 28 è un provvedimento d'urgenza che chiama il giudice ad intervenire nel merito di un conflitto industriale e di decretare la legittimità o sanzionare l'illeggittimità di un atto posto in essere dal datore di lavoro contro la titolarità rappresentativa del sindacalista. E', di fatto, un procedimento che espone il datore di lavoro, oltre che al contro potere sindacale, anche a quello giurisdizionale.
In sostanza le R.A.S. - Rappresentanze aziendali sindacali, oggi R.S.U, ossia Rappresentanze sindacali unitarie, ultimo anello della catena evolutiva che iniziò con i Consigli di fabbrica, possono ottenere un pronunciamento, immediatamente esecutivo, contro un'eventuale condotta antisindacale del datore di lavoro.
E' un disegno di contenimento dello spontaneismo dei delegati di base e delle maestranze stesse, che le R.A.S. o R.S.U. dovrebbero assicurare sui luoghi di lavoro e che, in funzione di questo, vengono tutelate da forzature irrituali del datore di lavoro. E' il cosiddetto “uso alternativo del diritto”.
Il “cuore” dello Statuto rafforza il sistema sindacale confederale, favorendo l'attività di chi si presta ad essere sensibile alle istanze generali. Ciò limita nei fatti il pluralismo, anzi scopertamente asseconda una tendenza egemonica del Sindacato confederale, a tutto danno degli altri, pur legittimi soggetti. E' un reciproco riconoscimento fra l'Ordinamento statale e l'autonomia sindacale, con il primo che promuove la seconda, rispetto al sindacalismo autonomo.
Le centrali sindacali, quindi, sottoscrivono il patto d'unità d'azione e si pongono come interlocutrici indispensabili per ogni possibile politica dei redditi, utile per l'adeguamento ai parametri europei ed agli standard mercantilistici dell'economia e della società.
Il ruolo politico, riconosciuto, dei sindacati si manifesta poco dopo la formalizzazione dello Statuto.
Il sistema istituzionale era afflitto dal multipartitismo estremo o, almeno così appariva, prima di sperimentarne la proliferazione indotta dal bipolarismo imperfetto. Una gran quantità di partiti erano comunque in concorrenza nell'occupazione proporzionale delle istituzioni, fino a provocare uno stallo pluralistico.
La contestazione, la contrapposizione si manifestavano esternamente agli apparati giuridicamente costituiti.
I partiti non sono in grado di assorbire il dissenso e di gestirlo. Questo compito è assunto dal Sindacato, attraverso gli ampliati strumenti offerti dallo Statuto e, laddove non vi riescano, sono loro stessi a stabilire i criteri di esclusione e di criminalizzazione.
Con lo slogan “lotta per le riforme”, il sindacato maggiormente rappresentativo intraprende l'opera di riassorbimento delle spinte centrifughe che si manifestano sul campo, cioè sui luoghi di lavoro. La campagna viene assecondata dal potere politico, che se ne fa un volano di consenso, filtrato dalle istanze che il sindacato propone e che il sistema politico media. La vita sindacale comincia ad oscillare fra momento propriamente sindacale e momento politico.
La Corte costituzionale statuirà, con sentenza n. 123 del 28 Dicembre 1974, che lo sciopero politico, diretto ad influenzare la formazione delle leggi, non costituisce più reato.
Secondo l'argomentare della Corte, il sistema democratico fondato sulla Carta costituzionale, non giustifica più la repressione penale dello sciopero, come nell'ordinamento corporativo, anzi, lo sciopero politico costituisce uno strumento di partecipazione dei lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese ed è quindi una libertà e non un reato.
Per la Corte non è, però, un diritto, come riconosciuto ai fini economici.
Cautelativamente, la Corte ne ammette la repressione, in applicazione dell'art. 503 del Codice penale Rocco, se “volta a sovvertire l'Ordinamento costituzionale” o quando diventa ostativa all'espressione della sovranità popolare.
Lo sciopero politico è, però, un inadempimento contrattuale, estraneo alle facoltà repressive delle forze dell'ordine, ma teoricamente sanzionabile dal datore di lavoro, che però ben difficilmente lo farà, dato che con la sentenza della Corte viene ammesso che la richiesta di migliori condizioni di vita dei lavoratori non passa solo per l'esercizio del diritto di voto, ma anche attraverso lo sciopero. Si evidenzia, per questa via, una dicotomia fra quanto prevede la Costituzione e quanto argomentato dai suoi custodi ed interpreti.
La Corte sancisce la supremazia del Parlamento e delle maggioranze democraticamente espresse, la Corte, riconoscendo l'estensione dello sciopero alle rivendicazioni politiche, economiche e sociali, riguardanti la vita dei lavoratori, ha legittimato la facoltà di contrasto e di condizionamento dell'attività politica.
Il disegno costituzionale viene contraddetto dalla possibilità, conferita al particolare sindacale, di competere alla pari con il generale politico. Il Sindacato unitario gioca, quindi, sullo scacchiere della politica economica, col suggello dello Statuto dei lavoratori, forte del patto di unità d'azione del 1972 e riassorbe le spinte centrifughe dell'autunno caldo a suo tempo cavalcate. Si pone come interlocutore privilegiato nel governo dell'economia.
Forti di una acquisita capacità di pressione politica, i sindacati confederali riescono ad imporre anche agli imprenditori le proprie richieste. Paradigmatico risulterà, in questo senso, il cosiddetto accordo interconfederale del 25/01/1975, sul punto unico di contingenza, detto anche acordo Lama/Agnelli, che l'Avvocato definirà, dopo molti anni, inopportuno, ma indotto dalla forza convergente della politica e del sindacalismo confederale.
Questo accordo segna la ripresa delle relazioni con la Confindustria, ma, per tacitare la forza oppositiva delle fabbriche e delle officine, sancisce un principio antieconomico: “il salario è una variabile indipendente”. Ponendo le premesse per uno sviluppo fuori dalla politica dei redditi, l'accordo porterà all'affermazione del metodo concertativo per coordinare la contrattazione collettiva e la politica economica.
Quell'accordo bilaterale, Triplice e Confindustria, palesa un forte interesse delle forze del lavoro all'ingresso nella stanza dei bottoni, tanto è vero che, l'accordo viene chiuso dal sindacato senza guadagnarvi null'altro. Per alcuni è un'abdicazione e l'inizio della sua separazione dagli interessi e dalle esigenze, perlomeno quelli contingenti, dei lavoratori.
Il Sindacato accetta di contenere il costo del lavoro, di congelare gli effetti di un accordo, vecchio di due anni, circa il calcolo dell'indennità di contingenza. Sposa la lotta all'inflazione, la difesa della moneta, la creazione dei presupposti per investimenti e per l'incremento dell'occupazione.
Accettata l'esigenza di calmierare il costo del lavoro, per fermare l'inflazione, si pose il problema della legittimità di interventi autoritativi che fissassero dei limiti agli incrementi salariali. Si confrontarono due tesi. La prima prevedeva un intervento legislativo che ponesse dei limiti all'autonomia sindacale, secondo il principio del primato della politica. La seconda, realisticamente ammise che per raggiumgere lo scopo e consolidarlo nel tempo fosse necessario coinvolgere le Organizzazioni sindacali e convincerle a contenere spontaneamente, attraverso la contrattazione collettiva, la dinamica del costo del lavoro.
In un contesto di crisi economica, il Governo recepì il contenuto del secondo accordo Lama /Agnelli in un decreto legge e lo estese a tutte le categorie produttive. Lo scopo, al tempo perseguito, è di bloccare l'indicizzazione dei salari alla contingenza e di affermare il potere dell'esecutivo di fissare per decreto dei canoni di politica dei redditi.
Questo tentativo è sospetto di illegittimità costituzionale, perché contraddice il consolidato rapporto fra la legge e l'autonomia collettiva nella determinazione del costo del lavoro.
Stride con il principio della sufficienza della retribuzione ( art. 36, comma 1 della Costituzione) e con la volontà di porre dei vincoli legislativi alla contrattazione collettiva di diritto comune ed alla libertà sindacale stessa. Giuridicamente, il fumus di incostituzionalità va ricercato nella inderogabilità bilaterale della legge, che preclude all'autonomia privata, collettiva ed individuale, qualsiasi modifica dei trattamenti legislativamente sanciti.
A dirimere la sottigliezza, la Corte costituzionale affermò la legittimità del decreto, data la sua provvisorietà, convenienza ed opportunità. La provvisorietà dell'intervento legislativo salvaguarderebbe la competenza sindacale ordinaria, circa la determinazione del costo del lavoro. Salvaguardata, per questa via, la libertà sindacale, si pongono le premesse per le future relazioni tra potere pubblico e l'autonomia sindacale nel governo dell'economia.
I sindacati maggiormente rappresentativi sono quindi parzialmente affrancati dal progetto costituzionale, che avrebbe potuto prevedere limiti legislativi all'azione sindacale, a tutela degli interessi macroeconomici, sono protetti dal principio della libertà sindacale, detengono la titolarità dell'autonomia privata e collettiva e possono valersi della libertà di sciopero politico. Le organizzazioni sindacali non sono più limitate alla sfera economico-sindacale. Ormai si occupano di elaborazione e codeterminazione di provvedimenti politici. Il Sindacato diventa un interlocutore necessario in ogni decisione afferente alla politica economica e si opporrà strenuamente ad ogni tentativo di risospingerlo nell'alveo originario o di modificarne il peso.
In dottrina, questa evoluzione-trasformazione prende la denominazione di supplenza sindacale e si focalizza nello scambio , che interviene, tra diritti, risorse e consenso sindacale e i suoi riflessi politici, in quanto incidenti sull'interesse generale. E' il modello concertato del governo dell'economia.
E' una modifica, comunque precaria, della costituzione materiale, mentre, sul piano formale rimangono le distinzioni fra rappresentanza d'interessi ( Sindacato ) verso il titolare dell'indirizzo politico ( Governo ).
Nonostante il far politica del sindacato, come sempre del resto, seppure in scenari diversi, il Parlamento continua ad essere considerato il depositario dell'interesse generale, del governo dell'economia e dei caratteri delle riforme.
Vediamo di periodizzare le fasi principali di questo iter concertativo.
Cominciamo dagli anni '80, allorquando si deve constatare che, in un contesto di scardinamento della coesione istituzionale e in una conseguente frana dell'amministrazione delle dinamiche economiche, l'inflazione prende ad erodere in termini esponenziali la capacità di reddito della maggioranza degli italiani e la rincorsa salariale riesce solo ad incrementare il fenomeno.
Ecco che si pone l'esigenza di calmierare le retribuzioni, ma si teme che le logorate strutture politico-istituzionali non siano in grado, da sole, di reggere l'urto del malcontento che si creerà. Ci vuole un mediatore, simbolicamente autorevole per immagine acquisita ed esperto nel dialogo con le masse. Tutte abilità che non risparmieranno al Sindacato, fino ai giorni nostri, veementi contestazioni, pur contenute, di concerto con i governi, nell'ambito della gestibilità.
L'alternarsi di diversi schieramenti politici negli ultimi decenni, vedrà differenziarsi la sensibilità di questa anziché di quella sigla sindacale, in rapporto alle fasce sociali prevalenti che ciascuna rappresenta. Fatto salvo sempre il principio di contare e dell'essere presenti, ma senza trascurare di porsi quale ( variabile ) componente di riferimento nell'ambito della Triplice.
Vediamo che, in questa fase, il Sindacato non si pone più quale semplice gruppo di pressione che cerca di influenzare la volontà politica tramite i partiti: comincia invece a porsi come interlocutore di pari dignità e forte di una competenza specifica, esclusiva ed originaria, in materia di politica dei redditi. Dal punto di vista negoziale, supporta di fatto la politica economica del potere esecutivo, mostra cioè ragionevolezza, rinunciando ad acquisire successi e spazi con la lotta. Dal punto di vista politico, vuole ottenere e consolidare il proprio coinvolgimento para-istituzionale nel governo dell'economia. Quanto effettivo o quanto scenografico è problema irrisolto.
Il primo momento topico di questo scambio si manifesta in una sensibilità non più rivendicativa, ma compensativa, quando la virulenta inflazione necessita, per regredire, del blocco sostanziale dell'adeguamento percentuale delle retribuzioni. Privilegiando l'interesse macroeconomico e la tutele del risparmio, ma aggravando le difficoltà di consumo dei ceti meno abbienti, il Sindacato ottiene il riconoscimento, pubblico ed ufficiale, della sua necessità per l'attuazione di una politica deflattiva. Ecco che le parti sociali si assumono l'onere e la responsabilità dell'interesse generale. E' un vero e proprio scambio politico formalizzato.
Il 22 gennaio 1983, il Governo, le Organizzazioni sindacali e le parti datoriali, dopo un anno di impasse, dovuto al rifiuto di Confindustria di negoziare i rinnovi contrattuali di categoria, in assenza di una revisione del sistema di scala mobile, sottoscrivono il cosiddetto Protocollo Scotti. Questo accordo sancisce il principio di Ezio Tarantelli, sposato da C.I.S.L. e U.I.L., della determinazione a priori, secondo quindi una programmazione, dei punti di contingenza. La C.G.I.L. non può gradirlo, perché attraverso l'unificazione del valore del punto di contingenza era riuscita a ridurre il differenziale salariale con le categorie impiegatizie, ma, dopo contrasti interni, lo accetterà.
Ezio Tarantelli cadrà sotto i colpi delle Brigate rosse, come avvenne poi ad altri intellettuali che avevano messo in bella copia ed autenticato sul piano culturale le volontà politico-sindacali in un laboratorio poco sicuro per questi equilibrismi: quello universitario.
In base al Protocollo, il Governo entra formalmente nel negoziato che prima mediava e se ne assume titolarità e responsabilità. E' evidentemente il prologo ad un modello dirigistico che, mutatis mutandis, rimanda allo scheletro, per lo meno, del modello corporativo.
Ammesso e non concesso che vi sia qualcosa di veramente nuovo sotto il sole, il metodo di creazione del consenso assomiglia a quello che, negli anni '70, aveva consentito, mediante le riforme sociali, la pace sociale stessa, ottenedo nuovi diritti attraverso la moderazione delle rivendicazioni salariali. Meno moneta e più principi, l'una e gli altri a carico della generalità dei cittadini.
Il Sindacato si imbarca nel mare procelloso della riforma previdenziale che l'indebitamento pubblico reclama, dopo la spartizione clientelare del bilancio statale, avvenuta sempre nel corso degli anni '70.
Il do ut des viene formalizzato in un contratto che ha per oggetto il governo dell'economia.
Politicamente, i sottoscrittori asseriscono il comune interesse a contenere l'inflazione e, per questa via, aumentare l'occupazione, e si impegnano a tenere comportamenti utili, anzi necessari ad ottenerlo. L'accordo fissa lo strumento programmatico della volontà pubblica, ma anche di quella sindacale. E', nelle intenzioni, la disciplina delle relazioni tra sistema politico e sistema sindacale maggiormente rappresentativo, tra ordinamento statale ed ordinamento intersindacale e conferisce a quest'ultimo capacità di condizionamento su tutta la variegata galassia sindacale italiana.
E' il trait d'union fra legislazione e contrattazione collettiva, per legare i comportamenti delle parti contraenti agli obiettivi di politica economica sottesi all'accordo. A livello teorico, viene rivalutata la categoria generale, prima che civilistica, del contratto, puntello del governo dell'economia e trasformatore dei metodi legislativi secondo le prerogative dell'autonomia sindacale. Il Protocollo Scotti è l'embrione della costituzione delle relazioni industriali che si compirà negli anni '90. Inizialmente è una pietra miliare della prassi di formazione pattizia delle regole di rapporto fra autonomia sindacale e governo dell'economia. Il suggello del ruolo politico delle organizzazioni sindacali.
Fino alla formalizzazione delle relazioni paritarie tra Governo ed Organizzazioni sindacali, l'interlocutore principale della maggioranza era stato il principale partito di opposizione, fino a giungere, dopo decenni di contrapposizione, a quell'éntente, più o meno cordiale, che fu detta consociativa, preceduta politicamente da un tentativo abortito di compromesso storico.
La consociazione si svolgeva in Parlamento, attraverso la pratica degli emendamenti concordati, che rendeva complici e sodali nella crezione della voragine del debito pubblico. D'ora in poi, il confronto vedrà protagonisti la Triplice ed il Governo, riuniti ad hoc allo stesso tavolo.
Il P.C.I. lamentò la lesione della propria autonomia politica, la riduzione della sua rappresentatività e, sul piano giuridico, l'incostituzionalità di questo governo dell'economia, che, però, sanciva una prassi.
Sul versante sindacale si manifestarono forti tensioni, a stento contenute nel rigido perimetro del Patto federativo del 1972, che stabiliva l'unità paritetica dei confederali.
Nascono definizioni e slogans: neo contrattualismo, necessità della concertazione e compartecipazione, che diventano le sigle delle prime, non ufficiali correnti interne, sotto il manto della dialettica culturale. La C.G.I.L. deve confrontarsi con le critiche del P.C.I., suo partito di riferimento, che si sente scavalcato nella trattativa con il Governo e che, anche attraverso questi travagli, incrina il suo tradizionale centralismo democratico. Il Partito comunista accusa la C.G.I.L. di avere reciso la cinghia di trasmissione e di assecondare il tramonto della centralità operaia, attraverso il cavallo di Troia della predeterminazione dei punti di contingenza. Su questo punto, la C.G.I.L. si divide fra la componente comunista e quella socialista.
L'anno successivo, in sede di rinnovo del Protocollo, le organizzazioni sindacali si presentano con posizioni articolate e divergenti rispetto al vecchio monolitismo. Il 14 Febbraio 1984 si consuma la rottura di San Valentino, proprio sul principio di predeterminazione. La componente comunista, maggioritaria nella C.G.I.L., ma minoritaria nei confronti dell'ormai emerso schieramento sindacale, non ci sta. E' la rivelazione, prima sotto traccia, poi palese, di due diverse ed antitetiche visioni del ruolo del sindacato nella politica economica. La componente comunista della C.G.I.L., nel respingere l'accordo, si rifugiò, formalisticamente, nell'ortodossia costituzionale del primato parlamentare. I socialisti della C.G.I.L., la C.I.S.L e la U.I.L. ottennero che il principio della predeterminazione andasse tutelato per affermare un ruolo responsabile ed inclusivo del sindacato.
Il Governo, intravvedendo la possibilità di agganciare la ripresa economica che si scorgeva e giovandosi della debolezza contingente dei sindacati, non stipulò nessun accordo e riassunse la sua titolarità esclusiva. Accenneremo questa volta e per sempre, che questi tentativi di istituzionalizzazione di ruoli costituzionalmente non previsti, si dipana sul piano delle necessità e delle convenienze, pur assurgendo al ruolo, non ancora disatteso, di vero strumento programmatico ed operativo dei governi di centro-sinistra, senza però istituzionalizzare nulla.
Sul punto unico di contingenza, la battaglia si sposta in parlamento, dove il P.C.I. ricorre all'ostruzionismo ed il decreto che lo introduce, decade.
Le mediazioni non riescono ed anche il successivo decreto in materia, il D.L. 17 Aprile 1984, n. 70, è sottoposto ad ostruzionismo, ma stavolta viene convertito in tempo, il 12 Giugno 1984 e diviene la Legge 219/1984. Vengono quindi raccolte le firme per indire un referendum abrogativo, che si svolgerà il 10 Giugno 1985. Il conflitto viene sollevato anche davanti alla Corte costituzionale, che torna ad occuparsi del rapporto fra legislazione e contrattazione e lo risolve in senso favorevole all'ammissibilità della legge.
La sentenza 7 febbraio 1985, n. 34, afferma con qualche ambiguità, la legittimità costituzionale del decreto, richiamandosi a “fini sociali e d'interesse pubblico”. La Corte si esprime anche sulla legittimità della prassi concertativa. Riconosce il carattere “costituzionalmente compatibile di queste trattative trilaterali tra Governo e parti sociali e continua a negare al Sindacato una funzione politica costituzionalmente rilevante, altrimenti “sarebbe alterata la vigente forma di governo”.
La sentenza si ispira alla ripartizione costituzionale tra azione politica e azione sindacale, in rapporto alla quale la legge ed il contratto “sono, nel proprio ordine, indipendenti e sovrani” . Si nega rilevanza costituzionale agli accordi concertativi, estranei all'art. 39 della Costituzione, considerandoli “oltre” la libera organizzazione sindacale e l'autonomia negoziale e riaffermando che gli interessi pubblici e i fini sociali sono demandati alla legge, a prescindere da accordi o meno fra Governo e parti sociali.
La Corte apre la via al referendum. Le parti vogliono contarsi.
I no prevalgono e il principio della predeterminazione entra nell'ordinamento giuridico.
All'esito di un lungo travaglio, la materia del contendere appare improvvisamente superata dal manifestarsi di un'accentuata dinamica commerciale e finanziaria che comincia a sgretolare le vecchie strutture regolamentari ed impone le prime destrutturazioni-ristrutturazioni di importanti settori dell'economia.
La ricaduta economica di tutto questo, unita alla debolezza derivante dalla separazione della Triplice, si avverte nella crescente concorrenza dei sindacati autonomi, federati o meno, delle diverse categorie.
I nuovi canoni industriali si ispirano ormai alla flessibilità organizzativa e produttiva, con conseguente ricerca di personale duttile da incoraggiare con premi per obiettivo.
La sterilizzazione della dinamica salariale riguarderà, d'ora innanzi, i prestatori d'opera standard e le strategie di concertazione salariale perderanno gran parte della lora capacità d'attrazione. La questione della partecipazione del sindacato al potere politico dello Stato ritorna in auge negli anni '90, in coincidenza con il dissolvimento del sistema comunista, di cui il crollo del Muro di Berlino costituisce l'evento simbolico dell'abbattimento di ogni barriera ai flussi finanziari e commerciali, capace di incrinare anche la sovranità esclusiva degli Stati nazionali e di mettere fuori gioco l'economia pubblica.
Vengono al pettine e disciolti i grumi di privilegio che una struttura compensatrice dell'economia e dei rapporti politici aveva comportato in Italia: la corruzione dei politici e dei funzionari pubblici, a tutti nota, viene aggredita dalla Procura della Repubblica di Milano, che frantuma la partitocrazia consociativa.
Sul piano istituzionale, secondo la logica del Gattopardo, si teoriza il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, guardandosi bene dal procedere alle necessarie modifiche costituzionali. Levatrice della Seconda Repubblica sarebbe la Magistratura, la sua pedagogia o epicentro giuridico, il passaggio dal sistema proporzionale a quello uninominale maggioritario.
Non c'è chi non veda come questa rivoluzione in carta bollata sia confacente agli snelli processi legislativi ed amministrativi necessari al neo capitalismo e come, anche per questa via, si vogliano selezionare i politici acconci. Altresì non sfugge che la pasticciata riforma, detta Mattarellum, dal nome del proponente, sia finalizzata a fare il restyling alla politica, lasciando nelle mani di una consumata nomenclatura, che ringiovanisce non di molto, facendo un passo avanti dalle seconde file, la nuova prassi e, nella sua retorica, la nuova vulgata.
Incalzano gli adempimenti comunitari, il trattato di Maastricht in primis, che sollecita un riformismo di segno opposto a quello degli anni '70, attraverso la riduzione delle prestazioni, in parte clientelari, dello Stato sociale, che resta comunque una delle maggiori acquisizioni storiche, di grande impatto sociale, del ventesimo secolo, e attraverso il perseguimento dello snellimento della burocrazia statale e la riduzione dell'intervento in campo sociale come in quello economico. La crisi mortale di quel sistema coincide con l'impossibilità di porvi rimedio con le consuete iniezioni di denaro pubblico, non più consentite.
I Sindacati sono riconvocati a un nuovo coinvolgimento nel governo dell'economia.
L'emergenza diventa lo slogan del periodo, i tecnici d'area guidano gli esecutivi ed i più importanti dicasteri, privi di legittimità elettiva, come privi di legittimità politica sono i partiti.
Si discetta di “un nuovo metodo per governare”, che altro non è che la ricerca del consenso fra le parti sociali, che assurge a ruolo fondativo della politica, dato che i partiti, in questa fase non possono interepretarlo.
Le parole d'ordine degli anni '80 erano state: “partecipazione, co-partecipazione, neocontrattualismo, neocorporativismo”. Ora si va decisi sulla “concertazione sociale”, strumento utile per assicurare la pronta attuazione e la raccolta del consenso circa i provvedimenti imposti dal trattato di Maastricht.
La Magna charta del ritrovato e rinnovato spirito concertativo è il Protocollo sulla politica dei redditi, la lotta all'inflazione ed il costo del lavoro”. Il testo mantiene una forma dichiarativa piuttosto che contrattuale, diluendo l'impegno formale, ma rispondendo chiaramente alla condivisa esigenza di contenere il disavanzo statale. E' una espressa dichiarazione di volontà del Governo e di altre venticinque parti sociali, di adeguarsi ai parametri di Maastricht, di “salvare le nostre potenzialità di sviluppo, di non cadere in una spirale incontrollabile che metterebbe a repentaglio, per lungo tempo, quanto costruito in questi decenni dal lavoro italiano e le prospettive di sicurezza economica di larga parte della comunità nazionale”.
Sull'altare di questo rinnovato ed un po' enfatico spirito, viene definitivamente concertata la fine della scala mobile, cioè dell'indicizzazione automatica dei salari all'inflazione. Il contenuto del protocollo è programmatico, individua, cioè, alcuni impellenti obiettivi e rinvia a successive negoziazioni la loro realizzazione.
In sintesi:
è affermata “ l'improrogabile necessità” di individuare “nuove” forme di contenimento del costo del lavoro, nei limiti dei tassi d'inflazione “programmati”, “necessarie a soddisfare i criteri di convergenza dell'unificazione monetaria europea”;
si concorda sulla “necessità” di privatizzare il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, per portarvi trasparenza ed efficienza;
si conviene sulla necessità di pervenire al rinnovo della struttura contrattuale, mediante la previsione di livelli contrattuali non sovrapposti e distinti, da definire in relazione ai tempi, alle materie ed alle procedure;
il Governo si impegna a curare il contenimento dei prezzi;
si conviene sulla necessità della riorganizzazione del mercato del lavoro, degli ammortizzatori sociali e dei contratti di formazione.
Infine, il protocollo istituisce, sotto la denominazione di “momenti sistematici di verifica degli interventi programmati”, delle sessioni concertative, propedeutiche all'elaborazione del documento di programmazione economica-finanziaria e della presentazione della stessa legge di bilancio dello Stato.
Attraverso la concertazione ed il battage pubblicitario che la sostiene, si autocertifica la legittimazione sociale che sottende al “nuovo riformismo” ed a far accettare la finanziaria più pesante della storia repubblicana. Il profilo dell'istituzione politica si innesta nella forma sindacato.
Questi canali di rappresentanza degli interessi “generali” dei lavoratori e degli imprenditori divengono, con tutti i ricchi paradossi dei lemmi della lingua italiana, governi privati, cooperanti alla regolazione statale. Le parti sociali suppliscono al discredito dei partiti e veicolano il consenso. L'occupazione di spazio non è contestata, anzi costituisce uno schermo utile a far rifiatare, sullo sfondo, i partiti.
Con l'accordo dei “produttori”, la legge finanziaria viene approvata. Contiene addirittura un prelievo forzoso dai conti correnti degli italiani. Gli italiani abbozzano.
La concertazione cerca di istituzionalizzarsi e si accinge a contribuire agli obiettivi del 1992.
Il Governo cerca di coinvolgere il maggior numero di interlocutori possibile, onde evitare slavine particolaristiche e favorendo il tentativo di egemonizzazione della Triplice sui soggetti più piccoli.
Il rassemblement per il potere sortisce i suoi effetti: il 23 Luglio 1993 viene sancito l'accordo allargato, tanto allargato quanti sono (quasi) gli attuali membri dell'Unione europea ( 25 ).
Viene sancito l'impegno a riformare il bilancio dello Stato, ad affinare quanto già previsto nel protocollo dell'anno precedente, in ossequio ai “superiori” dettami di Maastricht. Sulla base dei reciproci riconoscimenti, si mette mano alla ridefinizione dei rapporti fra Ordinamento statale e ordinamento sindacale: ci si propone di ridefinire gli assetti contrattuali all'interno di quest'ultimo. Allo scopo presiede il principio di sussidiarietà, ovverosia il canone per il quale si compensano all'occorrenza gli atti da compiere quando chi di dovere non “sia in grado di farlo”, con un'osmosi di competenze.
In base a quanto precede, si consolida il criterio del doppio livello di contrattazione.
Il primo livello attiene al C.C.N.L. di categoria; il secondo livello è demandato al Contratto collettivo aziendale o territoriale. Si istituisce un criterio di attribuzione di competenze secondo cui la contrattazione aziendale riguarda materie ed istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del C.C.N.L., con divieto espresso di aumentarne partitamente i costi.
La matrioska contrattuale, mentre apre al secondo livello di trattativa, ne limita l'applicabilità ai confini tracciati nazionalmente e, di fatto, non configura nessun obbligo a contrattare a livello decentrato. Il Protocollo, attraverso l'allegato accordo interconfederale, apre la strada ad un nuovo soggetto: le R.S.U., Rappresentanze sindacali unitarie, titolari in futuro di un compito di delega dell'accettazione-applicazione in azienda degli accordi nazionali e di assimilazione politica verso i sindacati autonomi, che, invece, fioriranno, con l'accettazione da parte dei più grossi dell'apertura al confederalismo, mentre, per converso, le R.d.B., rappresentanze di base ed i COBAS, Comitati di base, aumenteranno la loro presenza, facendosi portatori degli interessi particolari e delle esigenze di riconoscimento professionale espresse dalla base e giungendo a costituire strumenti di sostegno reciproco e di cooperazione, pur nel mantenimento delle proprie differenze e caratteritiche particolari.
Logorato ormai il concetto di maggiore rappresentatività, con le R.S.U.-Rappresentanze sindacali unitarie- si tenta di rafforzare l'azione sindacale confederale.
E' un passaggio delicato che sottolinea la continua messa in discussione della pretesa, giuridicamente mal puntellata, di sostituirsi alla realtà, che ormai mette in crisi i criteri che avevano ispirato la stesura dello Statuto dei lavoratori: Per supplire a questa debolezza, si procede ad una forzatura: si stabilisce che, in sede di elezione delle R.S.U., un terzo dei seggi sia attribuito alle tre Confederazioni, a prescindere dal risultato effettivo della consultazione.
Mentre la base ribolle, su un fondale paludoso si edificano le regole istituzionali precise sulle fonti e sugli attori, assicurando un quadro stabile, fino a nuovi equilibri, e governabile delle relazioni industriali.
L'accordo non è recepito dall'Ordinamento statale. Sarebbe stato a forte rischio di incostituzionalità.
Si sancisce così la provvisorietà dialettica di questo assetto materiale, atto comunque a governare le relazioni tra sistema politico e sistema sindacale, tra governo dell'economia ed autonomia sindacale, tra legislazione e contrattazione collettiva e persino tra contratti collettivi di diverso livello. La duttilità dottrinaria provvede alla bisogna, senza intaccare i criteri generali costituzionali.
Rappresentativamente, però, il protocollo del 1993 viene definito “ la nuova carta costituzionale delle relazioni collettive”. Si concerta la stessa concertazione futura e si definiscono i connotati dell'ordinamento del lavoro, razionalizzando la struttura contrattuale.
Mentre si persegue una stabilità di relazioni tra potere esecutivo e sindacati, si producono situazioni in contraddizione con quanto elaborato nel protocollo del 1993: un rinnovato sindacalismo autonomo in incremento associativo e il passaggio al bipolarismo in politica.
Per la natura stessa delle scelte della Triplice, il sindacalismo autonomo si arricchisce di nuova linfa, tramite un crescente consenso che lo spinge sul proscenio, animato da una forte spinta rivendicativa, sia pur settoriale e di mestiere. La pretesa egemonica di C.G.I.L., C.I.S.L. e U.I.L. ne è minata.
Contemporaneamente, il pur imperfetto passaggio al sistema elettorale uninominale, elimina il fondamento elettorale del potere dei partiti e, di conseguenza, del metodo consociativo. Forte della legittimazione elettorale, del cosiddetto consenso, il potere politico riafferma la sua volontà di ritornare ad essere superiore rispetto alle Organizzazioni sindacali.
Le Organizzazioni sindacali, più numerose ritrovano d'incanto la piena sintonia d'intenti: fanno fronte comune e si pongono di traverso, per non essere estromesse dal governo dell'economia. La veste di veto player del sindacato si manifesta.
Il 14 Ottobre 1994, le organizzazioni sindacali, di nuovo unitarie, proclamano lo sciopero generale. Nonostante il successo d'adesione, il potere politico va per la sua strada, procede d'autorità, con qualche modifica non sostanziale al ripristino dell'assetto precedente, ora, con una politica rilegittimata.
Non desistono neppure le Organizzazioni sindacali e, contro il metodo unilaterale, rilanciano, con una nuova ingente manifestazione di piazza che si svolge agli inizi di Novembre.
Ancora un successo d'adesione.
Il potere esecutivo tiene il punto.
Il 30 Novembre viene proclamato un altro sciopero generale al quale partecipa un milione di persone. La forza dei numeri e la costanza nella partecipazione inducono il potere escutivo a rinunciare all'unilateralità delle sue decisioni, privilegiando la soddisfazione dell'esigenza politica su quella della sua esclusiva legittimazione giuridico-formale. Il 1° Dicembre, desiste dalla riforma, non concordata, delle pensioni, che aveva costituito il casus belli.
La riforma delle pensioni viene stralciata dalla legge finanziaria e, dopo l'approvazione della legge di bilancio, l'esecutivo si dimette.
La contestazione sindacale si è tradotta in veto. La piazza contro il palazzo e la defezione della Lega Nord, movimento a base popolare delle zone più produttive del paese, provocano la caduta del Governo.
Emerge la figura del Presidente della Repubblica, sponsor e garante di un nuovo Governo di tecnici: la cronaca, più che la Storia, che vichianamente si ripete in mutati scenari.
Si tratta di un Governo tematico, presieduto dal Ministro del tesoro uscente, chiamato comunque a realizzare la riforma delle pensioni, “ con il consenso delle OO.SS”., evidentemente riconosciuto come dirimente.
Dopo alcuni mesi di concertazione, la legge n. 335/1995 realizza la riforma, che accoglie le principali richieste sindacali.
La volontà concertativa mostra significative contraddizioni: pretende infatti di disegnare i tratti di un nuovo sistema, valido per tutti, attraverso l'accordo delle OO.SS. maggiormente rappresentative, quando, destinatari dei provvedimenti, non sono solo i lavoratori subordinati ed i pensionati, bensì anche categorie non rappresentate nelle trattative, quali i Co.Co.Co.- Collaboratori coordinati e continuativi- ed i giovani in attesa di occupazione.
I contratti atipici che fioriranno poi, smantellaranno tutti i riferimenti precedenti e storici, ma non il contenitore della concertazione fra Governo e C.G.I.L, C.I.S.L. e U.I.L.
Fatto salvo il trait d'union, non si bada alle forme e neanche alla sostanza, introducendo elementi di discriminazione generazionale ( i diciotto anni di contribuzione ), l'istituzione della gestione separata per le collaborazioni coordinate e continuative, che, secondo l'opinione prevalente degli analisti, non garantirà una copertura previdenziale adeguata al prelievo fiscale che viene messo in atto.
Il Partito radicale propone un referendum sull'art. 19 dello statuto dei lavoratori che si propone di ripristinare il criterio della maggiore rappresentatività, su base reale e non presunta.
La Corte costituzionale, nell'ambito del controllo di ammissibilità del referendum, salva capra e cavoli con la sentenza n. 1 del 12 gennaio 1994. Ne riconosce la legittimità, peritandosi di sottolineare, però, che il quesito “non osta alla validità costituzionale delle altre clausole che, per rinviare alla contrattazione collettiva, fanno ricorso alla nozione di sindacato maggiormente rappresentativo”.
L'abilità dei termini del pronunciamento si manifesterà dopo l'esito vittorioso del referendum, che abiliterà anche i sindacati autonomi, firmatari di contratti collettivi applicati in azienda, a costituire, ope legis, delle R.S.A.
Si rimette quindi al mutuo riconoscimento, la determinazione e selezione dei soggetti abilitati ad usufruire del sostegno legislativo in azienda.
Se, per alcuni, è la frana progressiva del sistema di relazioni industriali, per altri è un apparente paradosso, o un'eterogenesi dei fini, perché, anziché intaccare, come si proponevano i referendari, il sindacalismo confederale, lo rafforza. Se, in teoria, è un'evoluzione pluralistica, in pratica subisce un'inversione di senso rispetto allo spirito referendario.
1996, cambia il quadro politico. La maggioranza è pro labour e gode dell'appoggio anche del Partito della rifondazione comunista. Sembra che ci siano le condizioni propizie per “una manutenzione del modello concertativo”, anche perché le tradizionali crisi economiche, la disoccupazione galoppante, come, altrimenti, l'inflazione e la crescente influenza dei vincoli comunitari, rendono ancora una volta necessaria una stagione di adattamenti, di riforme, con il suggello di una nuova, pesante finanziaria di risanamento.
L'Ulivo, come allora si chiamava la maggioranza, coinvolge immediatamente le OO.SS. che ne sono state “grandi elettrici” ed emargina l'opposizione che, sul fronte sociale, non dispone di argini con cui contrastare l'azione governativa. Il 24 dicembre 1996 viene sottoscritto il Patto per il lavoro. Scopo dichiarato è di “favorire il governo attivo delle dinamiche dell'occupazione senza innestare spirali inflazionistiche”.
Per essere atti costitutivi, cominciano ad essere un po' troppi.
Questa volta, il metodo concertativo è utilizzato per gestire la riforma del mercato del lavoro. Attraverso l'accordo, si punta a rendere flessibile il garantito mercato del lavoro e ad introdurre il lavoro interinale, secondo gli indirizzi provenienti da Bruxelles.
La riforma è realizzata con la legge n. 196/1997 ( detta pacchetto Treu )che prevede il lavoro interinale e rende elastica la disciplina circa l'opposizione del termine, favorisce il part-time e l'apprendistato, inaugura i contratti di riallineamento e i contratti d'area.
Il sistema sindacale confederale è pienamente coinvolto nell'instaurazione della flessibilità, giustificata con l'alto tasso di disoccupazione, che la rigidità del mercato del lavoro provoca.
Si aggiorna, quindi, l'intreccio fra legislazione e contrattazione collettiva, che affida ai “sindacati comparativamente più rappresentativi”, la possibilità di stipulare contratti collettivi nazionali per la categoria d'appartenenza dell'impresa utilizzatrice e per gestire l'introduzione della flessibilità interinale. “In caso di inerzia o disaccordo tra le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, il potere di individuare le ipotesi di fornitura di lavoro temporaneo torna alla potestà legislativa”.
Se da un lato si afferma, almeno in ultima istanza, la supremazia parlamentare, dall'altro, con la “rappresentatività comparativa”, si respinge ed argina l'incremento della rappresentatività dei sindacati categoriali e professionali, che, soprattutto per le rivendicazioni economiche, hanno di molto ampliato la loro base. Quest'ultimo ritocco è, però, un'arma a doppio taglio o, se vogliamo, libera le potenzialità di autonomia di ciascuna componente della Triplice e, poi, di specifiche sensibilità all'interno di esse. Se si proponeva di arginare i rischi di una perdita di effettività della contrattazione collettiva, apre anche la strada a possibili divisioni fra e nelle tre confederazioni “storiche”.
Si continua ad agire, comunque, nelle zone di confine tra la legislazione e la contrattazione collettiva, secondo presunzioni, frutto dell'esperienza.
E' una prassi che si applica nel mondo industriale....nell'ambito impiegatizio ed amministrativo, invece, si assiste al fenomeno inverso. In quest'ultimo ambiente, dove maggiore è la presenza del sindacalismo moderato, pur mettendo in cantiere, anche nel pubblico impiego, l'introduzione di elementi privatistici, normativi ed organizzativi, si abbandona la rappresentatività presunta a favore di quella effettiva.
Il rinnovato coinvolgimento del sindacato confederale nella gestione del mercato del lavoro e nella riforma del pubblico impiego provoca tensioni nella maggioranza di governo, quando si comincia a teorizzare una riforma organica delle relazioni industriali, degli ammortizzatori sociali e del welfare state. Le tensioni sono enfatizzate dal Partito della rifondazione comunista, che tende a porsi come “quarto sindacato” all'interno della maggioranza governativa. Sostenitore del primo governo Prodi, ma senza ministri al suo interno, sente minacciata la sua presa sociale dall'attivismo politico dei sindacati, soprattutto della C.G.I.L.
La corsa che si innesta sulla volontà di riaffermare la propria identità, lo porta a scavalcare il sindacato nel suo stesso campo: quello della disciplina delle condizioni di lavoro. Impone quindi al governo di inserire in Finanziaria l'obbligo legale di ridurre a trentacinque ore settimanali l'orario di lavoro.
Questa incursione contraddice il processo di flessibilità nel rapporto di lavoro, portato avanti negli anni precedenti. Il Governo pone la fiducia e, per un voto, non la ottiene.
A Prodi succede D'Alema, il cui governo non è però legittimato dal voto popolare, come si proponeva di assicurare la riforma elettorale. Gioco forza, D'Alema deve muovere alla ricerca di legittimazione sociale. Per questo, il 22 Dicembre 1998, sottoscrive un nuovo accordo concertativo: il Patto di Natale.
Le parti sottolineano, preliminarmente, la necessità di definire, nel rispetto delle prerogative e dei diritti costituzionali, una nuova fase della concertazione, per lo sviluppo economico e la crescita dell'occupazione.
Si comincia a teorizzare un'istituzionalizzazione della concertazione per farne il raccordo stabile tra ordinamento statale e ordinamento intersindacale. Si tratterebbe di far entrare stabilmente le OO.SS. maggiori nel governo dell'economia.
Allo scopo, si conferma l'assetto contrattuale dell'accordo 23 Luglio 1993 e si afferma espressamente il principio di sussidiarietà tra ordinamento statale e ordinamento intersindacale. “ le parti sociali sono competenti a decidere nelle materie di loro stretta pertinenza, sempre che queste deliberazioni non comportino oneri a carico dello Stato, nel qual caso, la scelta resta del Governo”.
Si cerca di stendere una ragnatela tra le fonti dell'ordinamento del lavoro. Ci si propone di raccordarsi tra l'ordinamento comunitario e quello nazionale, tra la contrattazione collettiva nazionale e quella decentrata, si prevede di rafforzare la contrattazione territoriale, attraverso il coinvolgimento degli Enti locali.
Metodologicamente, l'accordo sembra aver interiorizzato lo spirito della concertazione e, pur non prendendo in considerazione delle formalizzazioni legislative, tenta di istituzionalizzarle di fatto. Anche l'istituzionalizzazione di fatto è concertata, su un terreno neutro, nel quale il potere esecutivo e le OO.SS. si confrontano, senza escludere lo scontro, con pari dignità e legittimità.
La struttura della concertazione si fonda su due binari e queste tracce sono da percorrere quando il Governo intenda intervenire in materia di politica sociale, distinguendo tra materie che comportino impegni di spesa per il Governo stesso e materie riguardanti i rapporti tra le imprese, i lavoratori e le loro rappresentanze, senza oneri per il bilancio dello Stato.
I capitoli di spesa vengono affrontati in via preliminare attraverso la concertazione con le parti sociali; il costume e la prassi fra i soggetti sociali vengono fissati, o almeno si cerca di fissarli, in un tempo stabilito, fissato dal Governo, dietro richiesta degli interessati, in via negoziale.
Solo alla fine, quasi cerimonialmente, al Patto di Natale fa da suggello l'approvazione del Parlamento. Non viene recepito, però, in un atto avente forza di legge. Ci si accontenta che diventi parte integrante del programma di governo. Al parlamento è demandata una funzione notarile.
Al culmine di un processo tecnico di formulazione e di una prassi furtiva di concertazione, la ricercata stabilità di procedura comincia ad evidenziare un accentuato declino.
Si svolge la campagna elettorale per il rinnovo parlamentare della XIV legislatura. Il metodo di confronto con le parti sociali entra a far parte dei programmi di governo.
La coalizione di centro-sinistra afferma di voler proseguire nel metodo concertativo, attraverso il quale, sostiene di aver risanato il bilancio statale. Recependo lo spirito dell'accordo del 1998, si propone di mantenere stabilmente in equilibrio il bilancio statale senza più conflitti sociali.
Nella coalizione di centro-destra si rivendica, invece, il ripristino della primazia del politico sul sindacale e, già durante la campagna elettorale, si postula il superamento della concertazione. Le elezioni del 13 Maggio 2001 sanciscono la vittoria di questa seconda posizione.
Il sistema uninominale, sia pur corretto, sortisce l'effetto sperato: il bipolarismo e l'alternanza, almeno di coalizioni di partiti.
Nella precedente stagione proporzionalistica, l'opposizione riusciva spesso, attraverso il suo potere d'interdizione, a farsi associare alle più importanti decisioni di politica nazionale. L'uninominale conferisce allo schieramento vincente un potere di determinazione esclusivo e depotenzia, fino a svuotarle, le potestà politiche dell'opposizione.
Il bipolarissmo abolisce, frazionandolo, il cosidddetto Centro, assurto a perno della politica nazionale nei decenni precedenti.
Sulle ali, invece, si rianima il movimentismo dei cosiddetti “massimalisti”, prima esclusi dagli archi costituzionali e dalle scomuniche verso i morbi estremistici, dalla conventio ad escludendum di chi stava, per forza rappresentativa e di coagulo di interessi, all'interno del sistema.
Nell'ambiente sindacale è ormai chiaro che il rapporto con la politica non può più essere quello che vigeva con il proporzionalismo, “nel quale, il gioco con i partiti amici garantiva la rappresentanza sociale nelle camere parlamentari, sia tra i banchi dei sostenitori del governo, sia tra quelli dell'opposizione.
Si comprende che la possibilità di partecipare alla gestione della cosa pubblica finisce per dipendere dal gioco concertativo.
Nel centro- destra si diffonde la simmetrica convinzione di cogliere il mutamento di equilibri, per cercare di riaffermare il primato del ruolo politico e relegare le OO.SS. in una veste subalterna. Fra l'altro, sembra venir meno quell'emergenza inflattiva che aveva imposto la chiamata a collaborare dei sindacati maggiormente rappresentativi.
Lo stesso contenimento del costo del lavoro non sembra più essere un obiettivo prioritario e necessario. La necessità della concertazione sociale sembra superata.
Con l'allontanarsi delle posizioni, le istanze massimalistiche si rafforzano.
Il Governo, quindi, adegua la sua iniziativa e teorizza il metodo del “dialogo sociale”, per riformare, in una prospettiva più marcatamente liberista, il mercato del lavoro.
Il manifesto di questa ulteriore novazione di programma, è il Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, pubblicato nell'Ottobre del 2001.
Nel Libro bianco, richiamata e reinterpretata la genealogia degli accordi del 1983, 1984, 1992 e 1993, si teorizza il nuovo modello del dialogo sociale, la sua struttura, il metodo e i fini. Si dichiara l'intervenuta impossibilità di applicazione del modello concertativo degli anni '90, superato ai fini di affrontare la nuova dimensione dei problemi economico-sociali.
Rifacendosi alla metodica europea del “dialogo sociale”, si argomenta che, in caso di mancato accordo, il Governo debba portare a compimento i suoi progetti, rinunciando a ricercare “estenuanti unanimismi”.
Il metodo inaugurato si rifà al modello comunitario in vigore e mira a riprodurre, in patria, le condizioni di accettabilità di corpi sindacali che non prefigurino, per origine e lascito culturale, i crismi socio-sindacali di uno Stato totalitario.
Il metodo è la base ideologica delle sempre più frequenti separazioni di linee fra C.I.S.L. e U.I.l. da una parte e C.G.I.L. dall'altra.
Prodromo di una difficile stagione intersindacale era stata l'Intesa per Milano del Luglio 2001, che aveva visto la prima divaricazione sopra descritta.
Comunque, il Libro bianco si propone di realizzare, attraverso il dialogo sociale, un profondo disegno di modernizzazione del mercato del lavoro che, sulle orme del pacchetto Treu, professore, consulente C.I.S.L. e poi ministro, prefigura il passaggio dal welfare state al welfare to work, per promuovere una società attiva.
L'architrave del progetto è la modulazione delle tutele, che trova la sua pietra angolare nel lavoro a progetto ed il cui esito auspicato dovrebbe far scaturire lo Statuto dei lavori, secondo l'aspirazione di Marco Biagi.
Il nocciolo duro della riforma risiede in un nucleo ristretto di principi e norme inderogabili di specificazione del dettato costituzionale, comuni a tutti i rapporti negoziali che hanno per oggetto il lavoro.
Lo scopo sarebbe quello di modulare le tutele del lavoro in rapporto alle accentuate dinamiche dell'economia comunitaria e mondiale, alle quali non sono estranee le ricadute dei rischi d'impresa.
L'incertezza del quadro di riferimento è evidente, in rapporto alle giustificazioni addotte: mentre si rendono più labili le tutele giuslavoristiche, rispetto alle superande tutele previste dall'assetto economico sussistente, si afferma, dall'altro, di voler instaurare la valvola di sicurezza del sistema, per estendere le tutele ( in rapporto ad un divenire ) del rapporto di lavoro subordinato, sempre più esposto al precariato.
Il corollario di questa premessa è il disegno di legge n. 848 del Novembre 2001, che, parallelamente alla riforma del mercato del lavoro, prevede, da un lato, gli ammortizzatori sociali e, dall'altro, degli incentivi all'occupazione.
Si prevede anche un embrionale tentativo di infrazione di un tabù giuslavoristico, di attenuare, cioè, talune rigorose tutele, previste dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
La C.I.G.L., ormai isolata da C.I.S.L. e U.I.L., reagirà con una vigorosa mobilitazione che ne mette in mostra l'ancora intatta capacità organizzativa e che culminerà nel milione di partecipanti alla manifestazione del Circo Massimo, a Roma, in difesa dell'art. 18. Ne seguirà una battaglia, senza esclusione di colpi, “per conservare il frutto legislativo di dure ed epiche lotte”.
Il potere esecutivo afferma la necessità storica ed economica di procedere ad un'accentuata flessibilità del e nel mondo del lavoro. CI.S.L. e U.I.L. si mostrano sensibili ad assecondare, contrattandolo, un adattamento dei termini che presiedono ai rapporti di lavoro. La C.G.I.L. si arrocca nella difesa dello Statuto dei lavoratori, così com'era.
La polemica investe anche i teorici chiamati a mettere in bella copia e ad autenticare sul piano culturale la volontà dei politici. La contesa si imbarbarisce.
Il giuslavorista Marco Biagi fa da capro espiatorio della disputa, come già in precedenza ed in appoggio professionale a Governo di altro segno era toccato a Massimo D'Antona. Biagi cade ucciso da nuovi gruppi armati che si riallacciano all'esperienza storica delle Brigate rosse e, sotto traccia, a quelle delle formazioni partigiane spontanee.
Lo scopo sembra di impedire la riforma o di ucciderne l'artefice tecnico. Invece, rafforza, per contrasto, la volontà politica di procedere, mettendo in grave imbarazzo anche i critici della nuova legge.
Governo e sindacati rafforzano la loro collaborazione e, il 5 Luglio 2002, nasce un nuovo accordo concertativo, detto Patto per l'Italia, con il quale il potere esecutivo e le parti sociali si impegnano a tradurre in atto il progetto legislativo di Marco Biagi.

Le parti si peritano di sottolineare di muoversi nel solco concertativo previsto dal Protocollo del 1992. E' un vero e proprio contratto fra due parti.
Ci si basa, espressamente, sull'assetto contrattuale del 23 Luglio 1993 e si rimoderna il tracciato del Patto per il lavoro del 1996, pronubo del pacchetto Treu, molte previsioni del quale vengono adottate.
Secondo una prassi di coinvolgimento ormai consolidata, sono ben trentasei le sigle sindacale presenti: manca la C.G.I.L. E' una grossa lacuna in sé e per sé e rispetto agli episodi precedenti.
I sindacati partecipanti accettano di sostenere una ulteriore riforma del mercato del lavoro, finalizzata all'introduzione di ulteriori flessibilità, soprattutto per quanto riguarda i criteri e le regole d'accesso e del tutto funzionale all'economia che si prospetta. In cambio, il Governo si impegna a potenziare ed a tarare sulle prevedibili conseguenze di una accentuata dinamica liberalizzatrice, gli ammortizzatori sociali. Si intravede facilmente l'avvio di una strategia di sostituzione di soggetti lavorativi. Si avverte che si è preso coscienza dell'uso speculativo che è stato finora fatto della facoltà di usufruire delle collaborazioni coordinate e continuative, fino alla fraudolenza e ci si propone di reprimerlo.
I sindacati stipulanti assumono un nuovo e rafforzato ruolo nel promuovere l'occupazione e nel gestire il mercato del lavoro, attraverso il riconoscimento del ruolo e delle prerogative degli enti bilaterali.
Lo strappo o separazione che dir si voglia, induce a stralciare dal disegno di legge delega . 848, delle modifiche all'art. 18. anche la riforma degli ammortizzatori sociali e degli incentivi all'occupazione, che confluiscono nel disegno di legge delega n. 848 bis.
L'azione del governo si concentra poi sulla riforma del mercato del lavoro, approvata il 14 Febbraio 2002, con la legge delega n. 30/2002, detta anche Legge Biagi.
Con essa si dà attuazione all'impegno assunto nel Patto per l'Italia “di coinvolgere le parti sociali nella fase di elaborazione, emanazione ed implementazione della riforma del mercato del lavoro”.
L'art. 7 della legge Biagi ne formalizza un procedimento di formazione che vede il coinvolgimento stabile delle OO.SS. Suggello e conforto di questa impostazione è il decreto legislativo n. 276/2003, che richiama per ben quarantatré volte il coinvolgimento delle OO.SS.maggiormente rappresentative.
Abbiamo constatato come il movimento sindacale confederale si presenti diviso al compito di contribuire attivamente alla modernizzazione del mercato del lavoro.
Tutti, con riserve mentali, ora verso i provvedimenti in cantiere, ora verso i partners del proprio stesso fronte, partecipano ai tavoli negoziali, da un lato, per essere presenti e, talvolta, dall'altro, per ribadire ed argomentare posizioni difformi. L'unità sindacale si è incrinata e il Governo non sembra peritarsi di favorire una ricomposizione.
La frattura si amplia all'atto della sottoscrizione dell'accordo interconfederale sul contratto di inserimento e, soprattutto, quando le due Confederazioni minoritarie, per rappresentanza di settore, siglano, senza la C.G.I.L., il rinnovo del contratto dei metalmeccanici.
Le faglie delle divisioni si moltiplicano, passo passo, e la polemica ideologica fra le Confederazioni si fa rovente. La nozione di sindacato “comparativamente più rappresentativo” trae nuova linfa dalla situazione.
Da oggetto di dibattito politico, la legge Biagi degrada in una “guerra di religione”.
Stigmatizzata come strumento della precarizzazione del lavoro, è, per altri, volano di occupazione, coerente con le reali possibilità di accedere alle possibilità di lavoro offerte dai mercati.
La riforma risulta comunque zoppa, perché la contropartita sindacale del Patto per l'Italia: ammortizzatori sociali e Statuto dei lavori, risultano mancanti.
Lo slancio riformatore si involve nelle polemiche che deformano e inibiscono l'applicazione della legge Biagi.
La congiuntura economica è stagnante e potenzialmente recessiva.
Le parti sociali sentono, a questo punto, l'esigenza di riprendere l'azione concertata e cercano di ritrovarsi su tematiche di carattere generale.
Nel riconfrontarsi, trascurano di rifarsi all'esecutivo, il cui appeal è stemperato dalla scarsezza di sovvenzioni pubbliche erogabili.
Ciò non di meno, nel Luglio del 2003 viene firmata l'”intesa sulla competitività” ed a Novembre quella sull'ennesimo rilancio del Mezzogiorno. Prende la forma dell'accordo-quadro, riguarda scenari complessivi e si propone di pungolare “dall'esterno” il Governo.
Più concretamente, si registra un diffuso ricorso alla concertazione locale, per lo sviluppo sul territorio, tramite i contratti d'area.
I dati macroeconomici denunciano la sterilità di questi approcci; nel 2004/2005, il P.I.L. risulta stagnante.
Il Governo, contraddetto nelle sue intenzioni legislative circa il mercato del lavoro, mostra, d'ora innanzi, un marcato disinteresse per le tematiche giuslavoristiche.
Scade la legislatura e sono ancora inattuate quasi tutte le misure che il Patto per l'Italia prevedeva, come materia di scambio nei confronti dei sindacati firmatari.
La riformulazione delle norme si è arenata sulla flessibilità in uscita.
La riforma dell'art. 18 è abortita; mancano lo Statuto dei lavori e l'implemento degli ammortizzatori sociali.
Nella tutela degli occupati, si stemperano le previsioni di ripartizione degli oneri rivenienti dalla flessibilità tra insiders ed outsiders, tra coloro che lavorano in imprese con più di quindici dipendenti e giovani, disoccupati e stranieri.
Concertazione e dialogo sociale sono le due facce della stessa medaglia: su di un lato, constatiamo l'erosione del potere pubblico, sull'altro, il crescente rilievo che alcuni sindacati hanno assunto nella società italiana. E' uno sviluppo incongruo al disegno costituzionale ed è troppo condizionato dai plurali significati che si sono voluti attribuire al principio dell'autonomia sindacale, che il comma 1 dell'art. 39 della costituzione sancisce.
Secondo la dottrina costituzionale, il dettato della suprema Carta qualifica l'autonomia sindacale nel demando a contribuire a fornire, attraverso la contrattazione collettiva, la disciplina delle condizioni di lavoro e nella facoltà di sciopero contro il datore di lavoro per migliorare quelle condizioni. Nello sviluppo della vita del diritto ha assunto significati politici, capaci di tradursi in una grande forza di pressione, in grado di paralizzare l'azione governativa o, comunque, di compromettere la funzionalità dell'ordinamento del lavoro.
Vediamo dunque, nel trar le somme di questa disamina degli ultimi decenni della vita sindacale e politica italiana, di ordinare sistematicamente gli strumenti non ortodossi di cui si servono i sindacati per agire politicamente nella società.
Secondo il modello liberale, fondato sulla rappresentanza degli interessi, le maniere di influire sulle decisioni parlamentari risiedono nella capacità di pressione delle componenti organizzate della società. L'appoggio a questo o a quello schieramento è subordinato alla promessa di una legislazione conforme o almeno compatibile con gli interessi delle lobbyes. Organizzazioni datoriali e anche organizzazioni sindacali dovrebbero far pervenire i loro desiderata, sostenendoli con la capacità di influenza che detengono.
Le elezioni sono previste, però, ogni cinque anni e quindi, durante la legislatura, le influenze, anche quelle sindacali, prendono vie diverse da quelle parlamentari.
Quelle pubbliche prendono la denominazione e la forma della manifestazione, dell'astensione collettiva di cui lo sciopero politico è l'acme...per degradare nell'anarchia contrattuale...per ricomporsi nel referendum. “Potremmo chiamarle le categorie della contestazione sindacale”.
Espressioni del dissenso finalizzato:
la convocazione della piazza (dei Comizi tributi) serve a mostrare la consistenza numerica dei supporters, la capacità di mobilitarli e di motivarli. Sottocategorie della mobilitazione sono le manifestazioni, i movimenti, i girotondi, ai quali partecipano i sindacati per dare loro forza e che talvolta ne sono pure i promotori. Così hanno fatto, ad esempio, per contrastare il programma governativo sull'art. 18 e contro l'intervento in Iraq;
l'astensione collettiva da una obbligazione di fare, anche quando è diretta a manifestare una posizione politica, produce delle conseguenze nei confronti dei privati, siano essi consumatori, utenti, datori o prestatori di lavoro. Lo sciopero politico è il paradigma di quanto precede. Talvolta le proteste degenerano in reati, quali i blocchi stradali, ferroviari e delle altre infrastrutture.
La contestazione sindacale provoca l'ingovernabilità delle dinamiche contrattuali. Una prassi sindacale di contrapposizione sistematica impedisce l'applicazione della politica dei redditi, come l'intera esperienza della Prima Repubblica sta a dimostrare.
Ciò vale sia quando i sindacati si muovono unitariamente in termini ribellistici ed inseguono insieme, senza rinunciare alle rispettive autopromozioni, tutte le occasioni di scontro con le controparti.
Ma avviene anche per il potere interdittivo che una singola confederazione della Triplice può esplicare verso le intenzioni conciliative altrui, com'è avvenuto quando la C.G.I.L. Ha contrastato ogni iniziativa estensiva della Legge Biagi.
Arma finale, abrogativa di una disposizione legislativa sgradita, è il referendum, che consente alle posizioni di parte di trovare l'avallo, nel nostro Ordinamento, del corpo sociale. Il ricorso al popolo è considerato dal potere l'atto di delegittimazione più radicale, che mette in mora, trasversalmente, il principio o la pretesa di rappresentatività delle forze politiche, conduce ad una rimisurazione del consenso e prevede, in termini secchi, dei vinti e dei vincitori.
Quando il sindacato riesce a far rinunciare il potere politico a legiferare, si può serenamente affermare che ha assunto la titolarità di fatto di una facoltà di veto. Il veto è, tecnicamente, la facoltà riconosciuta al membro di un organo deliberante di bloccarne una decisione o di paralizzarne l'azione. E' il particolare che ostacola il generale. Attraverso il potere di uno di paralizzare tutti gli altri, rappresenta, in questo senso, il principio democratico di base che si corrompe verso l'unanimismo.
L'analisi condotta sul campo dimostra che, in questa contingenza storica, anche il Sindacato dispone di questo potere.
Formalmente, il diritto di veto è prerogativa delle forze politiche istituzionali, per attribuzione discendente di un ordinamento superiore.
Sul piano empirico, si è più volte constatato che, ricorrendo e miscelando i diversi strumenti della contestazione, il Sindacato, potere di fatto, fondato sul libero associazionismo e sulla forza da esso conferita, è riuscito a paralizzare l'azione di governo. Il già ricordato veto player, che della propria capacità di pressione fa una leva di condizionamento politico e di influenza significativa nel governo dell'economia.
Durante la passata legislatura, la contestazione sistematica al governo di centro-destra è stata assunta dalla C.G.I.L., che, sia pure con riserve espresse e scarti improvvisi, si è tirata dietro le altre due Confederazioni, altrimenti disposte al dialogo, quando non inibite sul piano concorrenziale. La C.G.I.L., grazie alla sua capacità di mobilitare le sue strutture e coagulare consenso, è riuscita ad impedire, attraverso scioperi e manifestazioni, la modifica dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori e a rendere attuabile integralmente la riforma del mercato del lavoro, attraverso continue iniziative categoriali difformi, puntualizzazioni e separazioni su temi specifici. La già citata contrattazione collettiva ribelle.
Questa politica ha però provocato, per la prima volta, nell'esperienza storica della confederazione marxista, dei frazionamenti interni espliciti, su tesi contrapposte, che sono all'origine della schizofrenia compensatoria delle sue disomogenee prese di posizione politiche e che non hanno impedito, comunque, la legiferazione su istituti importanti, riguardanti il mercato del lavoro, quali le agenzie private di collocamento in affitto di lavoratori e tutta la contrattualistica atipica che caratterizza attualmente il mercato del lavoro, trovandosi anche in contrasto con l'ex partito di riferimento, per altro, a sua volta, mutevole, almeno nelle denominazioni che andava assumendo. Clamorosa la contrapposizione fra massimo D'Alema, presidente del Consiglio dei ministri e Sergio Cofferati, segretario generale della C.G.I.L. sulla flessibilità. Paradossale, l'introduzione della facoltà di istituire agenzie di collocamento di lavoratori interinali, promossa dal Governo dell'ex comunista D'Alema.
Ancora di più fuori dai canoni istituzionali e sbiadita parente del sindacalismo eversivo dei primordi fu l'opposizione, tutta politica, alla partecipazione alla guerra nell'ex Jugoslavia, che lo stesso Governo D'Alema promosse e che la C.G.I.L. contestò e contrastò attivamente.
C.G.I.L., C.I.S.L. e U.I.L. si ritroveranno insieme nel tentativo, riuscito, nel 1994, di impedire l'attuazione della riforma delle pensioni.
Questi esempi dimostrano che il principio dell'autonomia sindacale, nell'evoluzione materiale dell'Ordinamento, si è arricchito di nuovi significati, che danno valore e concretezza all'agire politico del sindacato, a cui fa da contraltare un palpabile indebolimento del potere pubblico, osteggiato e surrogato.
Nell'ambito di un “ribellismo” strisciante, possiamo affiancare i piccoli partiti che fanno valere la loro rendita di posizione ed i sindacati confederali, quando non condividono le riforme.
Questo, sul piano istituzionale o para-istituzionale.
Non va taciuto, però, che la faticosa trasformazione dell'economia e della società, a parte un istintivo e sterile rifiuto iniziale, provoca, nella sua genesi, espulsioni, residualità ed emarginazioni e conseguenti difficoltà materiali e psicologiche, a cui la, talvolta non concordante, azione delle forze sociali, apre degli spazi che possono essere pericolosi e degenerativi ed ai quali, recentemente, la Magistratura ha apportato una terapia preventiva, individuando, negli anfratti della C.G.I.L., un nuovo, embrionale movimento brigatista.
Evidentemente, sul piano concertato istituzionale, si vigila.
Ad un invito ai più alti livelli: Capo del Governo, Presidente della Repubblica, a bonificare i propri ambiti, la C.G.I.L. ha fatto seguire, senza clamori mediatici, una profonda selezione dei propri Quadri, allontanandone molti dai suoi apparati.
Il veto sociale, però, si amplia.
Gli interessi particolaristici di comunità, enti, associazioni, per la loro natura privatistica esclusi o trascurati dalla concertazione, ormai a 360°, si organizzano e manifestano contro provvedimenti di interesse generale che siano in grado di sacrificare interessi locali o specifici.
Sulla previdenza complementare, hanno fatto la loro comparsa nell'agone politico l'A.B.I.-Associazione bancaria italiana e l' A.N.I.A.-Associazione nazionale industria e artigianato; sulle quote latte, gli allevatori auto-convocati hanno bloccato le strade ed ingaggiato tafferugli con la polizia; gli abitanti di alcuni paesi hanno occupato i binari ferroviari, contro l'impianto di un inceneritore nel loro territorio.
Epica la battaglia dei valligiani contro la T.A.V.-Treni ad alta velocità.
Questo potenziale potere di veto spontaneo esula dalle previsioni della Costituzione,ma, in sede politica, si è evitato di reprimerlo, ritenendo che, nei limiti di uno “sfogatoio”, anche prolungato e determinato, l'espressione prevedibile di sentimenti e non di vere e proprie opzioni politiche, che non avrebbero trovato, se non strumentalmente, sponde nelle istituzioni, potesse stemperarsi fisiologicamente, rimanendo nei limiti di una scontata reazione all'alterazione dello status quo.
Le proteste rimangono, infatti, circoscritte alle categorie ed alle comunità che rivendicano la tutela degli interessi sacrificati
Una repressione politica contro dei movimenti spontanei, rischierebbe di incanalarli verso una configurazione di massa, avversa al potere costituito, attribuendole una capacità di proselitismo, indotto dalla risonanza mediatica che questi fenomeni suscitano.
Particolarmente delicata risulterebbe la repressione del ribellismo sindacale che si esercita comunque nell'ambito di un interesse riconosciuto alla rappresentanza, scontati lunghi travagli storici. Per questo è destinato ad ammortizzarsi, di volta in volta, all'interno di quel contenitore, sulla traccia dei binari, lungo i quali, pur con frequenti scossoni, il convoglio procede. La repressione potrebbe provocarne il deragliamento.
L'elevazione dello sciopero politico al rango di diritto costituzionale è l'esito della fenomenologia rilevata ed analizzata. E' lo stadio più avanzato dell'ordinamento che ha progressivamente consentito al Sindacato di esercitare la sua autonomia in funzione politica. E' la massima divaricazione, finora evidenziata, fra l'ordine formale e quello materiale.
Nel tentare di mettere un punto fermo all'indagine che abbiamo intrapreso, abbiamo deciso di rifarci alla sentenza n. 16515/2004, con la quale la Sezione lavoro della Corte di cassazione ha elevato al rango di diritto, lo sciopero politico.
Lo sciopero politico non è più preludio alla rivoluzione, ma resta il più significativo strumento della contestazione sindacale e la sua qualificazione giuridica costituisce un efficace barometro per misurare la legittimazione formale dell'esercizio, in funzione politica, dell'azione sindacale e può essere utilizzata quale parametro per registrare la distanza fra il modello formale e quello materiale, fra la Costituzione scritta e quella vivente.
La Costituzione assegna ai partiti la funzione politica di concorrere all'interesse generale e di assicurarne l'attuazione attraverso l'apparato statale.
Le formazioni sociali sono libere di perseguire i loro interessi nei limiti tracciati dal legislatore, ma non possono utilizzare quel potere a fini politici. Conseguentemente, lo sciopero politico è stato prima considerato un reato, poi la Corte costituzionale, con sentenza n. 290/1974, lo ha trasformato in una libertà, categoria mediana fra reato e diritto.
In questi termini, come già detto, veniva inibito al potere esecutivo il suo perseguimento, ma si consentiva al datore di lavoro di considerarlo un inadempimento contrattuale e di sanzionarlo disciplinarmente.
I datori di lavoro hanno rinunciato subito a questa loro facoltà: mutato il contesto storico e politico, mutato lo scenario economico e la veste para-istituzionale delle categorie rappresentative, lo sciopero politico non è stato più osteggiato a nessun livello.
La sanzione di uno sciopero è impopolare, lo sciopero politico ha fini, dichiarati, nobili, si applica sporadicamente ed i suoi danni sono molto minori di quelli provocati dagli scioperi selvaggi, soprattutto nei sevizi pubblici essenziali e nei trasporti, per esempio.
Si è comunque trascurato di affermare il diritto di sciopero politico, perché, sul piano formale, la distinzione fra diritto e libertà serviva a riaffermare la distinzione originaria che aveva ispirato i costituenti: “a ciascuno il suo mestiere”.
Ebbene, la sezione lavoro della Corte di cassazione ha voluto disattendere, proprio con la sentenza n. 16515/2004, l'ossequio formale al dettato costituzionale che, contraddetto nella prassi, aveva comunque resistito per decenni.
Nello specifico, l'evento si è determinato quando fu dato torto ad un datore di lavoro che aveva minacciato delle sanzioni disciplinari verso quei lavoratori della sua azienda che avessero partecipato allo sciopero indetto contro la decisione del Governo D'Alema di intervenire militarmente nei Balcani, insieme ad altri paesi.
Se la sentenza supera un'ipocrisia interpretativa, l'occasione sembra la meno felice, perché, dà pieno riconoscimento allo sciopero politico in materia di politica estera, riconducibile, per converso, alla sicurezza nazionale. D'altro canto, l'applicazione di provvedimenti disciplinari aziendali verso comportamenti ampiamente in uso da tempo, avrebbe contraddetto una prassi, favorita e accettata ed avrebbe incentivato l'adozione di atteggiamenti consimili di altri imprenditori.
Difficili e sottili equilibrismi.
Una sentenza ardita o coraggiosa, a seconda dei punti di vista, non scevra di dubbi circa la sua legittimità costituzionale e sollecitante problemi politico-istituzionali. Certifica, da un lato, la crescente sovrapposizione di partiti e sindacati e, dall'altro, consente di configurare, nel diritto di sciopero politico, una possibile concorrenza sleale tra partito e sindacato.
Dalla sentenza discende, infatti, che l'unico potere a disposizione dei partiti, di contestare una decisione governativa, sia di indire una manifestazione pubblica, potere attivato ripetutamente ed irritualmente per i suoi presupposti storici, anche dal centro-destra.
Conseguentemente, nell'ambito del lavoro dipendente, l'unica facoltà lecita di parteciparvi, soggetta ad autorizzazione, è di usufruire di un giorno di ferie, potendo altrimenti incorrere in sanzioni disciplinari, mentre se la stessa manifestazione è indetta dai sindacati, gli stessi lavoratori possono prendervi parte, tramite lo sciopero, perdendo la retribuzione, ma senza ritorsioni da parte del datore di lavoro.
Il Sindacato è, quindi, favorito dalla sentenza nella mobilitazione della piazza e questo ha particolare rilevanza nel sistema bipolare che, concentrando il potere nelle mani dello schieramento politico vincente, attribuisce al sindacato una centralità strategica nel contrasto all'azione di governo.
L'evoluzione della considerazione giuridica dello sciopero politico attesta il rilievo assunto dal sindacato nell'evoluzione materiale dell'Ordinamento.
Quando il Sindacato confederale si affacciò sulla scena politica era vigente il principio del primato del Parlamento e lo sciopero politico era un reato. Poi il sindacalismo confederale fu chiamato a svolgere alcune importanti funzioni politiche: il contrasto e la scomunica ,nel mondo del lavoro, alla lotta armata e, sul piano politico-economico, il contenimento dell'inflazione.
Lo sciopero politico divenne, in quella fase, una libertà, da esercitare, però, nei limiti della funzione di cinghia di trasmissione. Le direttive venivano dal partito ed il sindacato le eseguiva.
Al termine di più di un decennio di concertazione, i partiti paiono evanescenti o comunque deboli. Per questo e per una serie di circostanze complementari, alcuni sindacati si pongono come veto player e lo sciopero politico sembra farsi diritto.
La cinghia di trasmissione si è spezzata e la competizione tra partiti e sindacati si è intensificata, anche nei termini meno paritari, come assecondato e favorito dalla sentenza summenzionata.
I sindacati possono sospendere l'attività lavorativa per fini politici, mentre i partiti devono aspettare un giorno festivo e “sperare che non piova”.
Così è stato fin'ora, nel breve volgere della Seconda Repubblica, mentre sembra che si stia prendendo atto che alle caratteristiche degli italiani, sia più confacente il proporzionalismo corretto”, così come fu corretto il modello uninominale bipolare.
Un passo avanti e due indietro....bisogna che tutto cambi perché tutto resti come prima.
In conclusione di questa breve disamina dell'evoluzione sindacale e, specularmente, politica degli ultimi decenni, vorremmo accennare alla maturata sensazione che, alle convulsioni della miscela concorrano sempre gli stessi ingredienti e che alle necessarie dinamiche si facciano seguire stasi compensatorie in cui la ripartizione ed i pesi degli ingredienti propri, si ristabiliscano.
Nel necessario contenitore comunitario si ammortizzano i rischi di crisi regionali o nazionali e ci si acconcia a coordinare politiche e costumi, appannaggio dei Paesi europei a cui spetta il ruolo di coordinamento ed indirizzo dell'Unione.
Il convergere nel contenitore unionista di Paesi ricchi ed industrialmente evoluti e di altri, reduci dalle economie pianificate e che forniscono braccia, ma anche competenze a basso costo ed opportunità di delocalizzazione degli impianti, ha creato un'attrattiva, mal governata, di masse umane, non sempre in condizioni professionali. I loro Paesi d'origine sono poveri, non democratici, tranne che nominalmente, in molti casi, ma sono anche detentori di materie prime e qualche volta sono confinanti. Se aggiungiamo l'invadente, più che crescente, finanziarizzazione dell'economia e, ultima, ma non ultima in termini di fatturato, una palese e complessa sinergia di e con iniziative economiche di matrice criminale, si prefigurano scenari inusuali, nei quali la capacità di controllo, indirizzo ed elaborazione culturale dei grandi soggetti storici sindacali confederali, risultano elementi determinanti per la e della coesione sociale.
In cambio, viene loro riconosciuto un ruolo fondativo ed originale nella società, mai, fino a pochi anni fa, vagheggiato.
E', in fin dei conti, un modello concertativo, basato su consolidati sentimenti morali, di cultura sociale, giuridica ed istituzionale dell'Europa continentale, che sfruttano le potenzialità e tutelano le compatibilità, accompagnandole evolutivamente, della generale liberalizzazione dei mercati, la cui natura va, invece, identificata nei paesi anglofoni, di diritto comune. La Gran Bretagna e gli Stati uniti d'America dettano il ritmo dell'adeguamento alle dinamiche di mercato. Un modello che offre delle opportunità, che può valorizzare delle potenzialità. Devono però ricorrere delle condizioni assodate, in assenza delle quali, per continenti, popoli ed individui, il futuro appare gramo.
Nella nostra provincia, gli eventi, in successione diacronica, che abbiamo esaminati e descritti, rappresentano il tentativo di dare l'assetto migliore possibile ai cambiamenti intervenuti e che interverranno, ridisegnando anche il potere di fatto e fornendogli una veste giuridica.
Redatto per la tesi di laurea di Riccardo - 2008 2009 -

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