domenica 10 marzo 2013

Apertis verbis.

S. Agata Bolognese (BO), 04/09/2012 Ns Rif.: R. Gnudi Spett.le Vicepresidenza dell’unione europea C.A. On. Antonio Tajani La nostra è una piccola impresa nata nel 1911, che da allora opera ininterrottamente nella produzione di componenti, principalmente per il mercato delle due ruote, nella famosa Motor Valley emiliano - romagnola, Motor Valley della quale oramai è rimasto solo il nome a parte qualche eccellenza. Scriviamo la presente per manifestare la solitudine dei piccoli imprenditori e la discriminazione subita dalle PMI, in particolare quelle più legate al territorio, quelle che non vogliono delocalizzare perché ritengono che un’ impresa sia fatta di uomini e che rispettano la collettività che opera all’interno della azienda, parte fondante della stessa. Ci permettiamo pertanto questo sfogo cercando di elencare le principali problematiche che tutti i giorni viviamo, che non sono soltanto quelle relative alla tassazione e alla burocrazia. Deve essere posto un freno alle Multinazionali, alle quali deve essere imposto il concetto che se vogliono operare in un mercato di riferimento, ad esempio quello europeo, devono produrre nello stesso mercato. E chi lo fa deve essere protetto dai competitor che non rispettano questa semplice regola con dei dazi. Questo semplice sistema è quello con cui la Cina opera da anni. Per un imprenditore italiano, infatti, non è possibile vendere i propri prodotti in terra cinese, se non pagando dazi appositamente calcolati per mettere il prodotto in oggetto completamente fuori mercato e proteggere i propri imprenditori. Inoltre non è possibile costituire una società in Cina se non attraverso una Joint Venture. Significa che il mercato cinese è impermeabile alle società di altri stati. Non ci si può entrare se non avendo come socio un cinese, con tutto quello che ne consegue. Di fatto le PMI non possono permettersi accordi del genere senza correre grandi rischi in un paese dove le tutele legali sono una strada non perseguibile. In India è possibile costituire società esportatrici non soggette a tassazione alcuna. Significa che è possibile andare a produrre in una low cost country (con tutti i vantaggi economici del caso), con una azienda in nero. Non si può chiedere alle aziende europee, e italiane in particolare, di competere con realtà di questo genere. Anche in altre Low cost country come Vietnam, Sri Lanka o la più vicina Serbia vengono dati sostanziosi sgravi fiscali alle aziende esportatrici. Per alcune aziende, tali sgravi, sono così appetitosi da esportare prodotti anche a costo di produzione. Questo sistema malato incentiva forme di concorrenza sleale e inasprisce la lotta su campi di battaglia sui quali le nostre imprese non possono vincere: quelli del costo. Oggi gli imprenditori italiani sono posti sul ring della competizione globale zavorrati da una tassazione spropositata, normative antinquinamento che impongono elevatissimi costi (investimenti e di produzione), un sistema di relazioni sindacali retrogrado e inefficace. I nostri competitor internazionali non solo non sono così gravati, ma si avvalgono di strumenti che fanno sfociare la competizione nella slealtà: il classico ferro di cavallo nel guantone. In un contesto in cui le giuste conquiste in materia di diritti e di salvaguardia del territorio e della salute si configurano paradossalmente come ulteriori orpelli, per noi, veri sostenitori dell’economia reale il rischio è quello di soccombere. Molte multinazionali hanno approfittato di questa situazione e, per mantenere profitti a doppia cifra, hanno comprato interi distretti produttivi/ aziende operanti nello stesso settore in concorrenza e le hanno smembrate, portando le produzioni in low cost country, tutto sulle spalle dei lavoratori, ma ciò che più ci rattrista è che ci hanno tolto la speranza. La speranza di ricreare quelle imprese che per essere costituite hanno richiesto intere vite di sacrifici e anni di lavoro. Dovremmo essere uniti contro questo tipo di capitalismo che mette le persone e il lavoro dietro ai profitti. Persino le banche ormai sono in grossa difficoltà. Perdono molto denaro e i crediti in sofferenza sono notevolmente aumentati. Difficile per noi difenderle visti i trascorsi, visti i contratti derivati o l’anatocismo bancario, vero bubbone sulla via dell’esplosione. Tuttavia sono oggi strategiche per il rilancio del paese. Non si può fare impresa senza denaro o senza il supporto di una banca. Tuttavia si può migliorare il sistema. In America il 70% c.a. della raccolta è investito sul territorio dove essa è stata fatta. In sostanza si permette a comunità virtuose di avere un volano finanziario in grado di lanciarle, un volano con caratteristiche di giustizia. La Comunità Europea non vuole questo tipo di sistema perché confligge con la libera circolazione dei capitali all’interno dell’Unione, ma questa libertà eccessiva ha fatto si che alcune banche siano andate ad investire solo sulla base dei rendimenti attesi. Il risultato è che abbiamo finanziato anche delle low cost country. Bisogna combattere in Europa per migliorare una regola miope. Dobbiamo armonizzare il fisco nel vecchio continente, perché scempi come le attività di ottimizzazione fiscale, operate da molte multinazionali (basti guardare quante sedi legali ci sono in Olanda), sono incompatibili con una realtà che vede i malati di SLA manifestare a Roma a causa dei tagli che li hanno coinvolti. In sostanza dovremmo ricreare un mercato che rimetta al centro l’Uomo. Mettere al centro il profitto come abbiamo fatto in questi ultimi anni ci ha fatto adorare un falso dio che ci “ha portato alla perdizione” e questa crisi è la nostra punizione. Punizione che si abbatte anche sui giusti, che non hanno mai operato sulla base della regola del profitto, ma sulla base dei prodotti e della comunità che compone l’azienda. Dobbiamo entrare in guerra contro i paradisi fiscali e i “paradisi produttivi”. Paesi che si avvantaggiano non mettendo regole, a scapito di chi le regole le rispetta. La contrazione del mercato che affligge in particolare l’Italia è diretta discendente della perdita di posti di lavoro. Non possiamo chiedere ai disoccupati di consumare. In sostanza sarebbe ora che l’Europa iniziasse a spostare il confronto da e tra i paesi interni costituenti ai veri competitor che stanno sottraendo lavoro e opportunità di crescita di tutta l’Eurozona. Noi che da anni abbiamo a cuore le sorti della nostra piccola, ma centenaria impresa riteniamo necessaria l’introduzione immediata di dazi sulle importazioni, già peraltro applicati in altri settori, o almeno l’applicazione del principio di reciprocità, estendendone il concetto in materia economica, con quegli stati canaglia che stanno sottraendo il bene più importante per noi, il lavoro. Siamo certi che comprenderete lo sfogo di chi vede tutti i giorni ridursi le possibilità di avere un futuro all’altezza del proprio passato, di coloro che vengono ingiustamente avviliti e mortificati dall’inizio della crisi, punti nel proprio orgoglio: il Lavoro. E che avvierete le necessarie attività a salvaguardia di quanto rimane del nostro settore. LA PAIOLI C o m p o n e n t s s r l Postfazione. In provincia di Bologna, sono solo tre le aziende che hanno tagliato il traguardo dei 100 anni di ininterrotta attività. Fra queste, La Paioli SpA di Sant'Agata Bolognese, che ha pubblicato la lettera aperta che riproduco sul mio blog e su facebook. Il tessuto delle piccole e medie imprese, che ha costituito la ricchezza diffusa e la solidità italiane è ora a rischio di dissoluzione per la proterva volontà della finanza sovranazionale e l'inanità accomodante e complce di tutta la declassata classe politica nazionale. Da esportatori di prodotti d'eccellenza, siamo prossimi a diventare esclusivamente importatori per pochi intimi, sciupando colpevolmente lavoro e competenze. L'estensore della lettera si chiama Riccardo Gnudi ed è un giovane imprenditore, paracadutato nel lavoro, già in piena crisi, da pochi anni ed è anche mio nipote.

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