domenica 26 settembre 2010

Profumo...di restaurazione.

Finalmente, ci sono riusciti. Alessandro profumo è stato costretto a dimettersi con il pretesto dell'accentuata influenza libica in Unicredit, che Cesare Geronzi, come un cavallo di Troia, gli aveva portato in dote all'atto dell'incorporazione della Banca di Roma.
Era stato Romano Prodi a chiederglielo insistentemente e lui, influenzato anche dalla moglie, funzionaria dei democratici, aveva accondisceso.
Nelle ridotte della vecchia banca, fin dall'inizio, si diceva che l'avevano raggirato, che era troppo ingenuo e manageriale per sopravvivere ai riti della finanza privilegiata. Infatti, subito dopo, scoppiò il bubbone dei subprime, che lo costrinse a fiondarsi al TG1 della 20 per "rassicurare i mercati".
Profumo era stato chiamato al Credito Italiano, una banca allora statica, di natura prevalentemente finanziaria, gestrice di grossi patrimoni e molto legata alla massoneria, alla quale aveva a sua volta aderito, come condicio sine qua non.
Per i primi dieci anni della sua carriera era stato un semplice impiegato.
Con piglio manageriale, aveva preso ad investire questi capitali, aveva sfruttato l'ultimo boom di borsa e si era prodotto in una vertiginosa performance, prima in Germania subito dopo la riunificazione e poi nei nuovi mercati est-europei. Si trattava, a ben vedere, di speculazioni finanziarie etero-dirette, ma efficaci e vincenti.
Poi la bolla si sgonfiò e si passò a scommettere sul prezzo di un titolo di tempo in tempo, per lucrarne la differenza a proprio favore e cumulare perdite corrispondenti, con in più le onerose commissioni specifiche. Si faceva così nelle borse agrarie per fissare un range sopportabile nel prezzo delle derrate alimentari, grano e patate soprattutto, fra i produttori prima e poi, nell'ambito delle borse agricole, da un raccolto all'altro.
La politica dei budget indusse molti riciclati gestori a sostenere l'affidabilità dei clienti, facendo loro sottoscrivere contratti sui derivati. Molte imprese sono andate in default.
Non so dire quanta sia stata la responsabilità del CEO e quanto abbia pesato il rifiuto a sottoscrivere i bond statali al 7-8% e quanto l'ostilità fredda e velenosa dell'Andreotti padano (Tremonti), ma sono certo che molto ha contribuito il generone stretto attorno a Cesare Geronzi. Costui è stato l'unico ad uscirne rafforzato.
Dotato di scarsa competenza bancaria, aveva retto il moccolo a Lamberto Dini in Banca d'Italia, ne aveva ospitato le strutture partitiche nei locali della Banca di Roma, con personale della banca.
Prima, aveva sostituito Ferdinando Ventriglia al Banco di Napoli; da lì, per conto di Andreotti, era passato alla Cassa di Risparmio di Roma e poi, sotto la stessa ispirazione, si adoperò per la creazione della Mediobanca de Sud. Fu allora che Andreotti fu inquisito e Geronzi cominciò una navigazione solitaria e procellosa, soprattutto per gli altri.
Ingaggiato Matteo Arpe, gli diede carta bianca, poi il benservito, ma con liquidazione da sbilancio societario. Ma lui, politicamente accorto, era già pronto a comprometterne un altro ed alla Mediobanca vera è approdato, solo per fondare "che Banca!", a beneficio di trecento - dico trecento - suoi clienti dell'ex banca. Oggi fa l'assicuratore, ma, con Banca Generali, ha già selezionato quella ed un'altra utenza privilegiata.
Profumo è stato un buon manager, pur non senza peccato, che però è stato investito da una pioggia di sassi da parte di peccatori incalliti.
Come diceva ieri sera l'ottimo Ferruccio De Bortoli, pur scottato e reso prudente da una precedente giubilazione: "in Italia non conta il merito, ma solo la capacità di relazionarsi".
Buona trasferta americana, probabilmente.

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