domenica 4 novembre 2012

In viaggio con Pietro.

Abbiamo fatto un viaggio fra valli ubertose di colori dolcemente declinanti, sferzati da un vento preconizzante il gelo di una vita raccolta, nascosta ai suoi fulgori. Ci siamo inoltrati nel grigio di terre contigue, antichissime. Sotto di noi, trasferite ad una natura immutabile, sedimenti di anime che furono, storicamente reinterpretate, ai più ignote. Abbiamo intravisto alcune fisionomie arcaiche di umanoidi, che hanno trasferito i loro geni, senza confonderli, trasfigurarli, in una fissità che tradiva staticità, quasi sempre nel sacrificio e nella dolorosa insensatezza, eppur magnifiche nelle riscoperta. Osci, Sabelli immortali. Correndo a dorso d'Italia, ci siamo rifugiati in un ostello arroccato e appartato, al quale la notte, soprattutto, conferiva l'aspetto di rifugio e usbergo accogliente, intorno al quale si consumava nella noia indigente, la vita degli altri. Il piccolo maniero, corredato di aggiornati stallini, dal quale si entrava e si usciva, sotto il piovischio, per brevissimi tratti, per guadagnare la taverna sussurrante in pietra viva e il confortante ricetto, le antistanze, per un'altra ristorazione prossima o per salire sulle carrozze, fiduciose nell'attesa. Pochi passi nell'ambito centrale del fortilizio, con l'immancabile rinfrescante fontana, or secca e rimembrante. Con un ascenditore riservatissimo si discendeva, per poi ascenderne, in un piccolo luogo di manierismi salutistici benefici e coreografici, costituiti di marmi riscaldati e teporosi, di fumenti umidi, di nebba vaporosa, di benefica irrigazione mitigante. Poi il riposo sopra un sudario deposto in sdraio iodizzate dalle pareti. Pochi passi, avvoltolandosi nel bozzolo finemente intessuto, la porta, che scopriremo essere destinata allo scarico delle vettovaglie mercificate, mentre l'ingresso è immancabilmente in pendenza, nel vicolo. Ovunque, anche per errore si può accedere; le porte sono aperte, la rocca non è più presidiata, o meglio, il presidio è alle antiche porte, di sotto. Dall'alto si osserva una sterminata vallata, appena digradante e sfumata nei colori della sua stratificazione, nella quale e lungo la quale, gli antichi abitatori consumavano i loro giorni nel trar frutti, ottimi, dalla terra, per offrirne le eccellenze e le primizie ai piccoli signori circoscrizionali, fino a che contese per questo o quel prodotto, per questa o quella coltivazione o ancor più banali e capricciose intenzioni, portavano le salmerie del signorotto contiguo a invadere i possedimenti del nostro, di cui occupiamo come ospiti paganti il ristrutturato maniero. Allora i contadini, portando con sé quanto di non deteriorabile potesse conservarsi per resistere all'assedio, affollavano il pertinenze del piccolo signoraggio e si trasformavano in soldati, a protezione e conservazione del loro signore e della loro specifica servitù. Ora, da un feudo all'altro, si corre su puzzolenti carrette, cogliendo in fretta, come in un film, le scene dei secoli. Ogni capoluogo si riproduce in scala, dai più consolidati ai più specifici e fissa nel suo cuore istituzionale i luoghi della Signoria: la Loggia dei mercanti, il Tribunale, l'Amministrazione dei beni comuni, nei quali, però, non tutti, in quei tempi, trovavano uniforme collocazione. La rappresentazione degli stati dominanti costituiva spettacolo e modello ammirato per i poveri, demandando loro il servaggio, per l'accoglienza. Ma, come allora, negli spazi liberi, nei pressi, lo sciamare del popolo, fra manifestazioni gastronomiche, politiche, folcloristiche e di fede, tutte frammiste in superstiziosa simbiosi, ci richiama alla constatazione di una realtà immota ed immutabile, nella quale le icone evolutive sono solo mascherate dall'ignoranza e dalla faticosa, deambulante aspirazione. La piazza, dunque, che compendia il mercato e i suoi custodi. D'intorno, le sue arterie e le sue vene, il reticolo di vicoli stretti, a tangere le botteghe artigiane e commerciali, i laboratori e le abitazioni, le umide concrezioni della vita, del lavoro che consuma, eppur così creativo, della malattia e della morte, a pochi passi dall'agio e dalla magnificente e autoglorificata opulenza. Tutto, lungo ripidi saliscendi, fra richiami e scalpiccii. Ci arrampichiamo lungo i pendii scoscesi, sulle protesi mobili delle scale, ridenominate mini metro, che ci conducono dalle adiacenze inferiori al centro, intruppandoci comodamente lungo le calli, ma inibendo la circolazione automobilistica, in precedenza consentita lungo tutto l'itinerario cittadino. Dove siamo? Che importa rispetto alla peregrinazione discreta eppur confusa nel caos, che coglie le bellezze architettoniche e non si cura della pastura a cui provvedono le fiere delle leccornie. Provate a indovinare. Fuori, da dove proveniamo, l'antico contado operoso per i fastigi nobiliari e poi padronali, rivive nell'affacendarsi senza posa dei traffici, delle mercature, della manifatture e delle tecnologiche realizzazioni; i ragazzi sciamano per e dalle scuole, mentre preparano la loro validità strumentale, a pochi altri, più che a se stessi, i fughinisti, numerosi e coesi, sostano in balotta fuori dai bar e altri ritrovi popolari. Desiderosi di chiostri silenziosi, di sale appartate chiediamo a un vigile motociclista, dove si trovi il Museo civico. Costui, armato, piccolo, tarchiato e calvo, interrompe la sua narrazione a un collega di un pellegrinaggio ad un luogo dei dintorni, dove si mangia bene e nessun molesta la digestione e, un po' interdetto, ce la fa difficile, si informa se siamo motorizzati, se sappiamo dove si trovi l'ospedale civile ed il viale del dolore che là conduce e poi, senza citare l'attribuzione nominalistica, civica o emblematica, del raccoglitore di vestigia artistiche, ci congeda. Ridiscendiamo, lungo il mini metro all'incontrario e ci inoltriamo in latebre underground, che l'ingresso automobilistico in città ci aveva ascose. La città sotterranea, massiccia e in pietra morta per l'infossamento, ci protegge sinistramente. percorriamo le buia ante fondamenta, precipiti alle porte fortilizie, rischiarate a chiazze da lampade sostitute degli antichi supporti per le torce. Sinistra e bellissima, inquietante perché, da un momento all'altro, per cedimento o per tradimento, potrebbe trasformarsi nelle volute, attorciliantisi, di Castel Sant'angelo, anch'esse fortilizio, ma carcerario, per gli sconfitti, sempre reprobi. Quasi al buio liquido dell'umidità scoscesa, le anime che le produssero e che le abitarono rivivono immutate, le parole, i conciliaboli, l'ansimare e il tacere, persino gli abiti, celati e trasfigurati dal caliginoso riflesso dei muri, non hanno epoca. Solo recuperando la banalità della loro attualità, questi contemporanei avvertiranno nuovamente, non senza un inspiegabile sconcerto, la loro vitalità. Scopriremo, nel pomeriggio, che l'unico Museo di cui aveva sentore, nella sua Perugia, il gladiatore nanerottolo è quello del cioccolato della Perugina, di proprietà, però, fin dal 1988, della multinazionale svizzera Nestlé. Per accedervi, bisogna comperare un biglietto e assistere ad una rappresentazione stereotipata e ripetuta per tutto il giorno, della saga della famiglia Buitoni, che novant'anni fa implementò il business delle caramelle con quello dei dolciumi. Apprendiamo a teatro - buona la dizione e la capacità interpretativa di questi attori, in un periodo di eclissi della cultura - che il famoso Bacio fu un'invenzione della Signora Luisa, che lo espose nei negozi di famiglia in assenza del marito per fargli una delle sue periodiche sorprese e che, prima di prendere inizialamente il nome della sua creatrice, fu da lei battezzato come "cazzotto", del quale le ricordava la forma. Prevalse poi una sensibilita di marketing più affinata, che preferì sostituire la richiesta di un cazzotto con quella di un bacio e che consolò l'orgoglio padronal-coniugale coll'attribuzione del nome della sposa e valente collaboratrice al cioccolatino. Il clima non mi piace: è marcatamente militare. Subito dopo lo spettacolino, è ancora d'obbligo, partecipare ad una tombola di baci, con una cartelletta che viene rilasciata all'atto dell'acquisto del biglietto; facciamo ambo, tris e quaterna consecutivamente con quella di Pietro. Accompagnati dagli sguardi di contrizione invidiosa dei non baciati, ci accalchiamo in cortile, dove attendiamo la convocazione del nostro gruppo, il 13. Infine, di ritorno da un altro tour, una tampucciotta di mezza età, presentatasi come Elisa, levando una paletta, ci dà il via, intimandoci di seguirla come cagnolini e di serrare i ranghi. Subito dopo il cancello c'è una mescita gratuita di cioccolato caldo. La truppa rompe le righe, si accalca, brandisce le tazze in polistirolo e plastica e si scotta le labbra, mentre il caporale Elisa sbraita: "avrete modo di strafogarvi durante la visita, proseguiamo!" Chissà da quanto scarpina. Poteva andare diversamente? Nel numero prequantificato che costituisce i gruppi e nei tempi che ne scandiscono la visita, occupiamo i rigidi scranni di una saletta di proiezione, alla parete della quale sono appesi alcuni manifesti che illustrano la vita societaria e le sue sponsorizzazioni e, per venti minuti, assistiamo ad un filmino da Istituto Luce, nel quale gli spunti di conoscenza, pur presenti, sono molto inferiori all'apoteosi pubblicitaria. Al termine, ci raduniamo davanti ad un bancone di pasticceria: la calca si fa di nuovo indistinta. Incediamo verso una porticciola metallica. Si capisce che stiamo per entare in un ingranaggio, nella fattispecie, quello della fabbrica. Inibizione di telefonini e strumenti di ripresa; la concorrenza spia. Ci inoltriamo per un budello costeggiato da vetrate, sotto le quali si possono osservare i macchinari, i nastri trasportatori, alcuni contenitori in plastica di Baci Perugina avvolti nella stagnola che, da distante, qualcuno confonde con dei bulloni. La fabbrica si sviluppa orizzontalmente in un'unica direzione, verso, cioè, l'esito atteso. Il disagio apparenetemente immotivato che avevo avvertito prima di entrare nell'ingranaggio, si dimostra giustificato. Come gli otto milioni di baionette di gerarchica memoria, come uno slogan, ci cade sulla testa la comunicazione che nel grande stabilimento, fra l'altro, si producono 1.900.000 baci perugina al giorno, che vengono commercializzati in 50 Paesi. La visita si limita ad un terzo dell'imponente ma anonimo edificio, fra i nastri e le impastatrici-miscelatrici, si affannano, in cuffietta, gli operai, in tuta-divisa color nocciola. Tutti uomini, perché è un giorno festivo e le operaie, ormai imborghesite, sono in gita con la famiglia: è quasi sempre così. Dalle pareti, incuriosite dal fotografo, una fila interminabile di operaie d'epoca, sui due lati di un tavolo stretto, ochhieggia agli astanti, in bianco e nero. Sostiamo, prima del congedo, in un ampio corridoio che reca sulla parete sinistra i disegni dei personaggi più famosi delle confezioni Perugina, disegnate da un tecnico, tale Seneca, che con l'illustre filosofo e poeta latino non ha nulla a che spartire, ma che ha creato delle figure, sullo stile della Domenica del Corriere, alla sua epoca celeberrime e oggetto di raccolta, con la quasi introvabile in evidenza, raffigurante una sorta di Aladino. In cauda, venenum. La parte meno dolce della quasi secolare vicenda dolciaria, viene rassegnata alla fine, dalle storiche e spersonalizzate maestranze. La Perugina, nel 1985, fu alienata all'Ing Carlo De benedetti, finanziere e ristrutturatore di aziende già celeberrime, per darne profitto al cedente e al temporaneo acquirente, che dopo tre anni di riduzione di costi, soprattutto dei salari dei lavoratori che furono licenziati massicciamente con i buoni uffici della CGIL e del PCI, di cui lo spregiudicato speculatore è sempre stato un beniamino, come aveva già fatto all'Olivetti, al Credito Romagnolo, rivendette con grande lucro la Perugina alla multinazionale svizzera Nestlè, che ne è ancora proprietaria, così come De Benedetti è stato cittadino elvetico. Chi ha conservato il posto e chi lo ha acquisito successivamente, lavora stagionalmente, secondo le previsioni di consumo dei dolciumi che sono diventati una gamma numerosissima e sono prodoti in questo o in quello stabilimento della Nestlé, che detiene piantagioni in Africa e fa abbondante uso di OGM. Dopo Pasqua, si va in ferie fino a Maggio e poi, per tutta l'estate, quando i gelati sopravanzano nei consuni le altri leccornie dolci, si lavora per l'autunno, l'inverno e la primavera, anticipando a suon di conservanti tutte le forniture natalizie, pasquali, della mamma e del papà, dell'anno. Non poteva mancare il bacione di commiato. Su di un video al plasma, scorrono le immagini di una fiera cittadina del cioccolato, nella quale, per celebrare un decennale produttivo del marchio nocciolato di fabbrica , la Perugina realizzò un bacio da cinque tonnellate, che faticò ad uscire dalle porte dello stabilimento, perché ne erano state sbagliate le misure, Trasportato in piazza per la sua esposizione e consumazione, con argani, tiranti e mezzi di trasporto eccezionali, la famelicità appropriativa e consuntoria, provvide in due ore a fagocitare mesi e mesi di lavoro. La perorazione è finita. davanti a noi, lo spaccio turistico, dove ci riforniamo. Infine il rompete le righe. Disordinatamente torniamo al prato, destinato al parcheggio di visitatori e torniamo al nostro paesello. Decidiamo di provare la Taverna dove il giullare, a sera, si ricreava e si rilassava delle sue lepidezze e constatiamo che il buffone di Corte aveva delle meschine ma ben fondate ragioni per non lavorare: il cibo è ottimo, i sapori marcati, il vino ricco di umori e screziature. Ci attende un giorno senza soste. Lasciamo il relais di buon'ora e ci dirigiamo verso Assisi. Prima di accedervi, ancora a valle, incrociamo un frate di mezz'età, piuttosto trascurato nell'aspetto che, a piedi nudi, dentro i calzari, agitando un saio troppo largo e sciupato, conduce una frotta di scout chissà dove. Subito dopo cominciano le descrizioni: mi colpisce quella dell'eremo delle suore benedettine svedesi, provenienti da una Regione più luterana che mai, nella quale, però, la libertà religiosa e tutte le altre, sono rigorosamente rispettate. Questo deve aver consentito all'ordine benedettino, anche nella sua versione para diaconale e femminile, di attecchirvi, suppongo elitariamente e di conservarsi, per non so quali canali. Mi auguro che le "sorelle" non dimorino in Assisi per lavare la biancheria dei monaci. La Regola e l'aspetto dei tre fraticelli, in tutto, che intravederò, sembrerebbero deporre per l'incontrario. Mentre ci appropinquiamo, lungo gli ampi tornanti, al paese del Santo e della sua fidanzata Chiara, anche lei Santa, come le affinità celebrative consigliano, inopinatamente si apre la roccia. Uno scalmanato che chissà da quanto tempo ripete quei gesti, ci dirotta autoritativamente in un antro, trasformato in un parcheggio. Ci accorgiamo che l'afflusso di mezzi privati e di torpedoni è incessante. Ci incamminiamo e sfociamo in un vestibolo luminoso, attrezzato a luogo di ristoro e ad emporio di cianfrusaglie più o meno costose, dove, fra icone di santi e scene descritte nei Vangeli, fanno da contrappunto i distributori automatici di bevande e di profilattici; fra gli uni e gli altri un bar ricevitoria, presso il quale si paga anche il ticket del parcheggio. Il giorno è festivo religiosamente e mal ce ne incoglie. Salendo lungo un ripido viottolo, in mezzo a umani transumanti ed esposizioni di chincaglierie, ho modo di cogliere le sagome di altri due frati francescani. Appena, appena, perché l'uno sta spingendo l'altro perché non si attardi sulla soglia dell'Ordine terziario. Entrambi sono magri e giovani, scalzi e ricoperti poveramente solo del saio, un sacco informe marrone. Appena ottenuto il suo scopo, anche lui si infila nel porticato di un chiostro e chiude con fragore la porta, liberandosi ed escludendo dal suo raccoglimento la massa incerta e vagante che ammorba il paesaggio. E' evidente la concentrazione bipartisan sul core business della fede e della credulità, senza distinzioni, in rapporto alla quale, istituzioni civili e religiose si spartiscono il reddito prodotto, presidiando il proprio ambito. Tutte le guide sono preti, non monaci. Ce ne è per tutti: Francesco è Patrono d'Italia, ci ricorda una targa; Benedetto è Patrono d'Europa, amplia il raggio un'altra. Nel combinato disposto delle cointeressenze, trascurando non evidenti inframmettenze azionarie, al potere civile sembrano demandati alberghi, ostelli, ristoranti, taverne e tavole calde, oltre ai negozi. La Chiesa, non bastassero le basiliche, gode di elemosine e donazioni, della sicura esenzione dai tributi per chiari ed esclusivi fini di culto dei suoi densissimi Templi, artisticamente struggenti. In più, rispetto alla mercatura civile, gode del lavoro gratuito di preti, monaci e suore, che curano anche il marketing internazionale, incentivano e promuovono, in cambio di una sussistenza e di un alloggio, dai quali non possono più fuggire. Nessun bene personale trasmissibile. Una autentica sudditanza, causa di tante deviazioni, coperte quando non vengono alla luce. Il lavoro come regola, la retribuzione ridotta alla sopravvivenza, la testimonianza iconografica di un principio che ti ha catturato e costretto per sempre, senza parere, se lo spirito critico è quello dell'officio. Doveva essere così anche ai tempi del Santo, cioè dopo la sua morte. Ciabattanti pellegrini, per i quali sono stati allestiti numerosi punti di ristoro, ricerca superstiziosa dell'utile, attraverso l'ammirazione e il contatto con le spoglie mitologiche di Francesco e quelle, forse autentiche di Chiara, tranne forse i capelli sviliti e stopposi attaccati al cranio. Toccarne le ossa, lambirne le vesti..di Chiara; non starebbe bene per una signorina esibire la glabra nudità delle sue ossa. E', soprattutto, un effondersi di dialettologia partenopea, di richiami alla coesione familiare e di gruppo, di richiesta di informazioni - anche a noi - per sapere dove si trovi la Chiesa del Santo e se sia molto distante. Entrare è possibile, ammirare i dipinti di Giotto, invece, non. E' in corso la funzione e metà dell'edificio è riservato agli oranti, mentre la visita è libera e contestuale negli anfratti non deputati alla liturgia. Secondo quale criterio? Anche la Basilica di Santa Chiara è organizzata nello stesso modo. L'accesso ai sotterranei dove i resti a lei attribuiti sono ancora visibili, si trova nella parte aperta al pubblico anche durante le celebrazioni. A guardia dell'entrata sosta un cartellinato custode, che nulla può, se non schioccare le dita inutilmente, nei confronti degli astuti che entrano velocemente dall'uscita non presidiata. A noi, quest'aspetto di antropologia religosa non interessa, anzi lo troviamo offensivo della spiritualità che, per credenti o non credenti, si effonde, viene suggerita dalla vicenda storica del figlio contraddittorio del ricco mercante e della ragazza che lo amava e che continuerà ad amarlo e a seguirlo anche nella sua trasformazione e trasfigurazione. Torniamo all'esterno. il nostro pellegrinaggio, pedibus calcantibus, non conosce soste, ma, miracolosamente teniamo botta, io in particolare, Pietro è un gagliardo podista. L'idioma, non univoco, ma incontrastato, continua a trasportarci nel mondo della fede della plebe partenopea. Qualche vulgata aspra e meno musicale sembra segnalare la presenza di qualche boss della camorra, notoriamente molto religiosi. La loro vicinanza ci conforta; per loro, speriamo, gli scugnizzi non si azzarderanno a borseggiarci del nostri pochi averi, dei nostri documenti e delle nostre macchine fotografiche. L'arroccato paese del Santo e della sua Santa fidanzata, si è conservato, ma si è trasformato in meta di pellegrinaggi turistici incessanti. Anche in questo si è trasformato, ma pure conservato. Così devono essere stati gli itinerari della superstizione popolare, di una spiritualità esteriore, cioè, propagandata e coagulante, a formare una superficiale identità, al di sotto della quale, le rivalità , le contese rimanevano intatte e l'esteriore comunanza diventava il corpo contundente dell'aggressione ostracizzante o sul capro espiatorio. Le masse umane vanno, là dove il simbolo si sedimenta. Fanno così gli Indù a Varanasi, i Musulmani alla Mecca, i Cattolici a Roma in occasione dei Giubilei. Quello verso il Santo non è un pellegrinaggio minore, è solo più popolare rispetto alla partecipazione inglobante, ma gerarchica, ai riti ufficiali delle diverse confessioni. E' bizzarro assistere alla processione di turisti indiani in sari, in colonna dietro una guida che parla inglese, col loro terzo occhio stampiglaito in fronte a scrutare l'anima degli interlocutori, condursi strani della personalizzazione della fede, loro che antropoformizzano trentatremila divinità pagane. Probabilmente, loro no, che possono permettersi un viaggio ad Assisi. L'utilitarismo spicciolo, impetrato dalle grazie, costitusice la base di quello di apparato, fra potenti, rappresentato in pubbliche cerimonie che il popolo devoto avalla con i numeri della sua ammirata partecipazione. Il francescanesimo, monachesimo medievale, sembra assediato nei suoi conventi; intorno a questi ultimi, ogni giorno, per il borgo vortica un volano ininterrotto di denaro. La pubblica osservanza si muta in privata resa. Ma, con questo, non credo e non affermo che la spiritualità sia stata bandita dalla Rocca, sono anzi certo che sopravviva, celata e impaurita nei cuori e nelle menti di quanti non so, siano essi credenti o meno, nella loro libertà. Non sostengo nemmeno che la fede sia strumentale all'utile economico e propagandistico: la strumentalità di massa viene creata dall'organizzazione ostentativa e didascalica che si vale di una fede superficiale. E' paradossale: pur non sapendo quanti siano gli iscritti nelle liste elettorali del collegio di Assisi, mi viene il sospetto che a contribuire al successo delle liste comuniste del Comune e del circondario, abbiano, a suo tempo, dato il loro contributo anche i frati. Conosciuta l'esistenza di una accreditata scuola musicale e canora, ovviamente sacra e dopo un'intera mattinata di visite e peregrinazioni, impediti nella conquista dello spazio dalla concentrazione pericolosamente indistinta - anche per loro - dei nostri simili ( fino ad un certo punto ), decidiamo di metter piede anche ad Arezzo. Escludiamo Gubbio, perché siamo certi di trovarvi altri e più deprimenti pellegrini. Se gli "assisini" riproponevano almeno uno scorcio immutato della fede immaginifica, petulante ed implorante e per nulla impegnativa, dei fedeli di ogni tempo e, forse, di ogni dottrina, a Gubbio si svolge un altro tipo di processione oracolare, quella dei fans di Don Matteo, di cui si sta recitando in loco un'altra serie, che voglione vedere, toccare Terence Hill o, peggio ancora, vedere di persona la parrocchia di Don Matteo, che credono esistere veramente con a capo il bel parroco. Quando le coltivazioni, soprattutto quella onnipresente e qualificatissima degli ulivi, viene interrotta, lungo il percorso, dagli insediamenti industriali, l'anima si immiserisce, si insquallidisce. Passiamo in mezzo ad una filiera di fabbriche e fabbrichette, di cortili deserti che saranno animati da schiavi al lavoro, di terreni aridi. La luce bigia che aveva conferito alle vallate una nostalgica dolcezza, adesso illumina dei manufatti che irradiano morte, delle praterie desertificate nelle quali gli uomini, quando vi torneranno, saranno l'unica espressione di una vita monca. Sfrecciando sulle vie degli antichi manieri, allertato dall'occhio di Pietro, più vigile dell'autovelox, abbiamo anelato a una delle tante perle, fieramente autonome, della Toscana medievale e rinascimentale, ambita e raggiunta dal Petrarca e nutrice del suo omonimo protagonista della battaglia di Monntaperti. Finalmente, la periferia del capoluogo che ci accoglie, deserta e ci accompagna fino all'unico bastione della sua magnificenza, anch'esso semivuoto: la Piazza grande, digradante secondo disegnate figure geometriche. Poche anime vagule, blandule, sul far del meriggio, conservate botteghe artigiane, opportunità museali con guida obbligatoria. Dopo la calca, il deserto. che ci consente la riappropriazione dello spazio e solo parzialmente del tempo. Di questa piazza, che compendia e racchiude tutto l'antico borgo , ho, nel ricordo, una visione notturna, affascinante. Qualche anno or sono, le porte antiche degli uffici pubblici, della Chiesa e del Museo, dei negozi artigianali ed artistici, degli alimentari di più consolidata tradizione, restituivano intatta alla piazza, l'aura originaria, isolandola, credo, come al tempo della sua prima fabbrica, dallo squallore circostante. Pietro, che desiderava visitarla, se ne è compiaciuto a lungo, fino a che ne è stato temporaneamente sazio. Constato che, purtroppo, qualcosa è cambiato. Accanto ad un ristorante di grande cucina, dove mangeremo frugalmente, pur lasciando all'oste quindici euro di coperto, convive un altro punto di ristorazione, con vista piazzale, di cibi precotti in busta e riscaldati, come quelli che si trovano, anche adiacenti alle pompe di benzina. La piazza, il punto di ritrovo dei cittadini, dovrebbe essere nuda, nella mia concezione, ma così non è mai stata, essendo deputata, anche, alle mercature pubbliche. Vaghiamo ancora, portiamo con noi altri ricordi, le linee arcane ed eleganti, lo sfacelo del Teatro intitolato a Petrarca, al quale è intitolata anche una casa, dove abitò e una via, in memoria di un suo soggiorno aretino. E' sera. Riprendiamo la via di casa. Mentre saliamo lungo i tratti autostradali appenninici fra la Toscana e l'Emilia, la temperatura si abbassa, chilometro dopo chilometro, fino a comprenderci in una tempesta di neve, per una trentina di minuti. La temperatura è di mezzo grado sotto lo zero, i fiocchi grossi e mulinanti nel vento. La neve si deposita sui lati del parabrezza della macchina, mi preoccupo: non ho ancora montato i pneumatici da neve. Per fortuna, lo sciame delle auto, riscaldando l'asfalto, è sufficiente a sciogliere la neve che cade copiosa. Il tratturo, che non sappiamo quanto sarà lungo , ci assorbe in una festa inopinata, che, se un po' ci conturba, sa consolarci nell'ultimo tratto in altura della nostra peregrinazione e infonde calore alla nostra prudenza, nel moto sopportabile, fra camion astringenti, per l'ultimo tratto di questa volta. Qualcuno, impaurito, rallenta troppo, poi accosta e si ferma compromettendo e ritardando le sue possibilità di proseguire. Mezz'ora dopo, la temperatura ricomincia ad alzarsi, fino a stabilizzarsi a 6,5 gradi. La neve viene rimpiazzata dalla pioggia, che lava, sostituendolo, il manto precoce.. Pietro ha filmato, con il cellulare, la nevicata nei tratti illuminati, la data e l'ora dell'evento, il termometro che segnala la temperatura esterna. Pietro, mio nipote, ha prodotto, lui dice involontariamente, tutto questo. Ha scelto ( o è stato scelto? ) luoghi e itinerari e ha guidato e corretto il driver zio al più efficace tragitto. Il nostro dialogo è stato essenziale, ma le emozioni profonde e condivise, con le varianti soggettive, patrimonio dell'interiorità. La nostra compagnia è stata civile, familiare e, nonostante il podismo d'altura, rilassante, per quella compiutezza frutto dell'approfondimento ricercato e libero del nostro essere altrove e dell'esser sempre fra di noi. Per lui, mi ha detto, ha costituito un recupero rispetto alla fatica degli studi coerentemente condotti, all'estate contraddetta, ai tempi che ormai si sovrappongono alle esigenze di uno studente universitario, autonomo, rispetto alle dinamiche familiari. Per un po', abbiamo assistito, estranei, allo stesso spettacolo di cui siamo, altrove, inconsapevoli protagonisti ( o comparse? ) con un po' di conoscenze storiche e artistiche, con il rimando delle sensibilità simboliche studiate concettualmente, apprese e riconosciute per emanazione. Ci siamo difesi dall'aglutinazione del sentimento e dall'omogeneizzazione delle pseudo idee che il piffero conduce alla non meta e che ci ha impedito un raccoglimento completo, laico o religioso che fosse. Ancora quaranta minuti e siamo a Bologna. Gli usuali scenari ci rassicurano, ma un po' ci spengono. Eppure amiamo i luoghi e le famiglie, ma l'empito delle sensazioni incognite, eppur così usuali e spesso sofferte, ci rende nostalgici e desiderosi di riempircene ancora. E' l'espressione più consona e, per me, non ancora indebolita, della nostra spiritualità, un recupero di animus religiosus, senza aspirazioni che non siano frutto della fatica e senza dogmi. Un francescanesimo senza rifugio.

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