domenica 15 aprile 2012

Come color che stan sospesi.

Appeso alla locandina esterna di un'edicola, leggevo un comunicato di un sedicente sindacato degli edicolanti, che lamentava l'imminente liberalizzazione totale della vendita dei giornali. Si lagnava, inoltre, dei prezzi imposti, ma non accennava alla gratuità delle rese e dell'impossibilità di applicare tariffe di vendita discrezionali. Si doleva, cioè, per la mancata libertà di commercio di una categoria lavorativa e sembrava non avvertire che, quella libertà, stavano per restituirglierla. La licenza per fare l'edicolante è piuttosto costosa, i tempi di lavoro sono lunghi e antelucani e l'esposizione per quattro stagioni, molto usurante. Ciò non di meno, nella media, i ritorni economici ci sono e sono interessanti. Si temeva, dunque, l'interruzione di un'abitudine, di uno status, chissà quante volte biasimato e con reali argomenti, ma ormai sedimentato nell'abitudine o adottato come un approdo al quale abbarbicarsi. Per qualcuno, oltre alle tasse comunali d'esercizio, ci sarà anche da pagare il prestito stipulato per licenza e avviamento. Le liberalizzazioni, un pretesto verbale come un altro, intervengono a modificare il substrato sul quale si basano, da generazioni, molte attività, divenute tradizionali. Nella fattispecie, si tratta, nella prassi, di una riedizione della lenzuolata di Bersani - ex comunista, oggi liberalizzatore democratico - che, ridottasi ad una federa, era però riuscita ad imporsi riguardo alla vendita diffusa delle notizie, mentre, nella forma, riecheggia uno disposizione europea nr... ecc.. Sta di fatto che i giornali stanno chiudendo, si trasferiscono sul web, sono ormai dei volumetti reclamistici, nei quali la metà dello spazio è occupato da ogni sorta di pubblicità, che, quasi tutta relegata nelle pagine oltre la venticinquesima, può essere conservata o cestinata subito. Gli edicolanti, uniti in una Gilda, minacciano, se il provvedimento, rilanciato, ma già in essere, vedrà la luce, di vendere, a loro volta, qualsiasi cosa ritengano utile al loro guadagno, se la loro quota di mercato dovesse ridursi, per via di una concorrenza che, in dieci anni, non ha attecchito, per lo spirito abitudinario degli italiani. Personalmente, non vedo l'utilità di questi disordinati cambiamenti, ne intuisco invece lo scopo banalizzatorio e relegatorio verso e negli esercizi d'accatto, riservati alla maggior parte della popolazione, destinati ad un consumo superficiale e frettoloso, nei pochi attimi di sosta del lavoro o della vacanza. I giornali che chiudono sono, spesso, i fogli più critici, arte o scienza che non si vuole più coltivare. Immagino, fin d'ora, che cosa esporranno gli edicolanti espropriati e non. Le nostre strade, storiche e periferiche, continuano a banalizzarsi in cartellonate grossolane ed oggettistica di nessun pregio, prossimi ad un self service per alimenti, a una lavanderia a gettoni, a un distributore di pizze da scaldare e di Coca Cola. Come in ogni area vicaria del mondo. Le lavanderie a gettone c'erano già, quando io ero bambino e rappresentavano un soccorso comune e massificato per i singoli - ma si chiamavano scapoli - e le famiglie, perché la lavatrice domestica era ancora troppo poco diffusa. ma godevano di scarsa considerazione. Si riteneva che fosse roba per vagabondi, poveracci e non corrispondesse al "decoro" di una famiglia. Ora, dopo un lungo ed incantatorio lavorio di destrutturazione di quei sentimenti e senza, purtuttavia, perdere la loro identificazione plebea, le ho viste rimaterializzarsi, uguali ad allora, ma quasi sempre frequantate. Per ora, sono poche e, finché lo resteranno, la linea di confine fra decoro e pauperismo, non sarà stata definitivamente soppressa. Vecchi, poche donne mal messe, studenti fuori sede, turisti con il sacco a pelo, divorziati senza o con un alloggio di fortuna e stipendio impegnato in alimenti all'ex coniuge. Poi si vedrà. Anche in questo ci stiamo adeguando? All'Europa? A un costume ribassista, provocato da una malafinanza? Da bambino, ricordo una vecchietta che passava lunghe ore dentro un piccolo parallelepipedo che, all'imbrunire, illuminava con una lampadina appesa a una parete. Vendeva banane. sullo stipite dello scatolone di legno che conteneva lei ed i frutti, stava scritto: coloniali. Erano, infatti, importazioni dagli ex possedimenti e si valevano ancora di un regime di vendita e regolamentare particolari, non ancora abolito, una decina d'anni dopo la fine della guerra e, con essa, del fascismo. Ricordo che di quei prodotti "coloniali" si faceva un uso parco: costavano molto, perché prodotti da coltivazioni autoctone, perché trasportati con mezzi nautici rudimentali, perché distribuiti in concessione governativa e gravati da tasse. Quando, pochi anni dopo, la baracchina sparì dal marciapiede, vicino ad una clinica privata, non sapevo che le banane, che si sarebbero progressivamente impoverite di gusto, sarebbero calate di prezzo e distribuite un po'più diffusamente - la distribuzione orizzontale e sempre più scadente, era ancora da venire -, ma rammento bene il sentimento di privazione di quell'icona stabile in edicola, dove era probabilmente invecchiata ed il rammarico di non sapere come si sarebbe sostentata. Torneremo presto a ignorare queste cose.

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