domenica 11 ottobre 2009

Cento anni iconografici.

La bella mostra, allestita dal Bologna f.c. 1909, nel Palazzo del Parco delle rose, in via Saragozza, a pochi metri dal Meloncello e dallo stadio, documenta e suggerisce cent'anni di passione popolare, vissuta senza distinzioni di classe.
La differenziazione si manifestava, invero, nei settori che venivano occupati sugli spalti del glorioso Littoriale, oggi Stadio comunale Renato Dall'Ara, dal nome dell'ultimo presidente scudettato della storia calcistica cittadina, nel 1964, a Roma, dopo lo spareggio vottorioso con l'Internazionale del Mago Helenio Herrera.
Renato Dall'Ara morì tre giorni prima dell'epilogo favorevole, durante una lite con Angelo Moratti, padre dell'attuale presidente dell'Ambrosiana, Massimo.
Sugli spalti, non numerati, dello stadio che Mussolini inaugurò a cavallo, nel 1925, in occasione di un incontro Italia-Spagna, vinto dagli azzurri per 1-0, con un goal del "paso doble" Angiolino Schiavio, che, a fine carriera, continuò a caratterizzare la toponomastica cittadina attraverso il marchio "Schiavio Stoppani" all'angolo fra le vie de' Toschi e Clavature, dedicato all'abbigliamento sportivo di qualità, che ha chiuso i battenti da pochi anni, per la prima volta presero posto i sostenitori, compulsati tra la genuina passione nazionale e le esigenze propagandistiche del regime. In porta, per la Spagna, giocava il mitico Zamora, celebrato dagli aedi delle gazzette sportive e della radio: non vi era, allora, la televisione.
In quel 1925, il Littoriale, capace di 50.000 posti sui suoi gradoni stipati, era il più grande stadio d'Europa, dedicato all'atletica ed al pallone. La scelta bolognese era stata dettata soprattutto dalla fama che già accompagnava quel Bologna che avrebbe collezionato sei scudetti in rapida sequenza e due Coppe dell'Expo di Parigi, assimilabili alla successiva Coppa dei campioni, oggi Champion's league.
I calciatori appaiono piuttosto tozzi, di scarsa sicumera e rude e rustica prestanza, con la maglia di lana grezza ed i calzettoni spessi; il pallone è di buon cuoio scuro, cucito a losanghe, lo sfondo è spoglio e tristemente autunnale.
Fino all'anno prima, il Bologna f.c. aveva giocato e acquisito fama sul campo, in leggera pendenza, dello Sterlino, in via Murri, sede, attualmente, di due piscine comunali. Gli spalti si limitavano a tre-quattro file di gradoni ai lati del prato , che chi scrive ha fatto in tempo a vedere, deserti, prima della trasformazione dello spartano impianto.
Non mancavano, neppure allora, gli stranieri e gli oriundi sud-americani, in ispecie Uruguaiani ed Argentini che, spesso, naturalizzati, contribuivano alle fortune, oltrechè dei clubs, Torino, Genoa e Bologna soprattutto, anche della Nazionale calcistica, che si apprestava allora con il Commissario tecnico Pozzo, a conquistare le sue due Coppe Rimet. Era questo il nome che si attribuiva al trofeo consegnato alla squadra nazionale vittoriosa nella finale di un torneo indetto fra le migliori compagini del mondo, dopo che la definitiva acquisizione della vecchia icona alla squadra del Brasile, quando conseguì il terzo successo nella manifestazione, è diventata la Coppa del mondo tout cour.
Su quei gradoni di cemento grezzo, il tifo popolare si esprimeva con grida, slogans, sbandieramenti ed una non propriamente urbana rivendicazione della propria identità, nella svalutazione e nel dileggio di quella degli ospiti.
In quegli anni, soprattutto nei confronti dei tifosi genoani, corsero, reciprocamente, insulti, risse e, anche, colpi di pistola. Simulazioni della guerra e dell'appartenenza, il loro messaggio non giungeva in tempo reale e visivamente alle masse, coinvolte direttamente o nella medesima intossicata passione e le gazzette si limitavano a prenderne atto, senza presumere di dover educare, nè le autorità - oltre alla punizione degli eventi delittuosi - si impegnavano in propagande sul "politicamente corretto", mettendo nel conto che quella violenza agonistica dava sfogo a tante tensioni e frustrazioni,in un ambito politicamente e socialmente circoscritto.
Per un paio di decenni, almeno, il risorto P.C.I. del dopo guerra, considerò la passione calcistica popolare, alla stregua di un novello "oppio dei popoli", mentre, nei Paesi del socialismo reale, le squadre assunsero i nomi adatti a propagandare quella simbiosi di "Comunismo ed elettricità", così cara a Lenin: Dinamo, Lokomotiv, oltre al simbolo del conseguito destino astrale dei lavoratori: Stella rossa.
Il medio ceto impiegatizio occupava, al Littoriale, i distinti, centrali e laterali, tribune opposte alla centrale che davano ( e danno ) le spalle a Piazza della Pace. Da lì, gli spettatori piccolo-borghesi potevano apprezzare la realtà in movimento da una posizione speculare, ma opposta, rispetto a quella della classe dirigente del denaro ( poca )e, soprattutto delle tessere-invito, riservate alle autorità pubbliche.
Se in curva si militava, come nelle "adunate oceaniche" o nelle "riunioni di manipolo", antesignane dei moderni Fan's club - di prossima conoscibilità, attraverso un'apposita tessera del tifoso, come gli ammorbati contagiosi -,come nei picchetti davanti alle fabbriche nella competitiva società democratica del dopoguerra, e si incitavano con foga e grida i gladiatori alla sottomissione degli avversari, nei "distinti" si commentava, si discuteva animatamente, si criticava l'arbitro - a quei tempi, cornuto - e si gioiva veramente solo quando la propria compagine andava a segno.
In Tribuna si andava soprattutto per conoscere o per intrattenere la Gente che contava, per farsi vedere gli uni dagli altri od insieme ai maggiorenti. Ieri, come oggi. Era l'unico settore dello stadio in cui si potevano vedere, anche se di rado, le uniche donne presenti: la moglie del Questore, del Prefetto e via, istituzionalizzando.

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